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GIUSEPPE CENTONZE

«Coppie» e «La vita in due» di Clelia Pellicano

(Settembre-Ottobre 2009)

 

Clelia Pellicano


 

Profondamente legata a Castellammare fu la marchesa Clelia Romano Pellicano, femminista impegnata e scrittrice coraggiosa, che vi trascorse importanti anni della sua vita, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.

Nata probabilmente a Napoli nel 1873 - in verità le fonti sono discordi sul luogo e l'anno di nascita - in una famiglia di patrioti (il padre era il barone pugliese Giandomenico Romano giurista e deputato al Parlamento, la madre era Pierina Avezzana, figlia del generale garibaldino e deputato Giuseppe e di una donna irlandese), nel 1892 sposò «in un raro e felice connubio della ragione e del cuore» il marchese di origine calabrese Francesco Maria Pellicano, nato a Napoli nel 1855, e andò a vivere nella villa stabiese dei Pellicano a Quisisana.

Qui, quand'era ancora giovanissima e già madre dei primi due dei suoi sette figli, cominciò a scrivere delle novelle, apparse nel 1899 sulla rivista «Flegrea» con lo pseudonimo Jane Grey e inserite poi in Coppie (Napoli, Pierro e Veraldi, 1900), una raccolta di varie e particolari storie o situazioni di ménage, che suscitarono scalpore tra i benpensanti del tempo, ma anche alcuni positivi e importanti giudizi critici, che la incoraggiarono a continuare la sua attività di scrittrice. Ed infatti Jane Grey pubblicò ancora nel 1908, presso la Sten di Torino, le Novelle calabresi, spostando tuttavia il suo interesse verso temi regionali.

Il successivo 1909 segnò una svolta nella vita di Clelia, che in quell'anno perse il marito e fu costretta a interessarsi da sola dei figli e del patrimonio; segnò una svolta anche per la sua attività culturale e sociale: ella pubblicò infatti su «La nuova Antologia» un'inchiesta sulle industrie e le operaie di Reggio Calabria, partecipò al Congresso femminile di Londra per il voto alle donne e iniziò a svolgere un'intensa attività di propaganda femminista, di conferenze  e di articoli sulle condizioni e i diritti delle donne. Si spostava tra Castellammare, Gioiosa Jonica, Napoli e Roma, e nella capitale tenne un noto salotto frequentato da letterati, artisti e politici.

Dopo la prima guerra mondiale vide la luce la seconda edizione di Coppie col nuovo titolo La Vita in due (Torino, Sten, 1918), che qui utilizziamo, comprendente le stesse storie, con qualche lieve rifinitura. Ne riportiamo i passi che più interessano le nostre Spigolature Stabiane.

Si parla di Castellammare nella novella Luna di miele, in cui Beatrice (Biciuzza), che si trova a Sorrento col marito Lillo, in luna di miele per l'appunto, racconta all'amica Graziella la sua sconvolgente giornata, la sua «ultima giornata di sole», degenerata alla fine in una inaspettata esplosione di gelosia. I due hanno fatto una gita a Cava, percorrendo in carrozza la strada fino a Castellammare, qui hanno preso il treno per Torre Centrale e a Torre quello per Cava, ma il caso ha voluto che abbia viaggiato per un tratto con loro il conte di Mora, l'antico fidanzato di Biciuzza, il quale, tra confidenze, dicerie e impertinenze, ha inoculato nell'animo della donna il veleno di dubbi e sospetti sul passato amoroso del marito, una volta inconsistenti o sottovalutati e da questo momento sempre più radicati e struggenti, fino ad esplodere al ritorno a Sorrento.

In relazione a Castellammare e alla sua stazione, dove la «bellissima» cittadina rivelava spesso le sue contraddizioni, è interessante il racconto dell'originale raggiro subito da Biciuzza, ad opera di un presunto facchino, per un suo bagaglio, uno «scatolone» con qualche abito per la gita, da spedire come collo appresso:

 

«Era mezzogiorno preciso all'orologio di Lillo, e a quello della stazione, quando, lasciata la carrozza con l'ordine di trovarsi a Torre Annunziata alle 7, saltiamo nel treno che alla Centrale si cambia per quello di Cava. Mancava mezz'ora alla partenza: ne profittiamo per ispedire con comodo il bagaglietto - uno scatolone di fibra - dove avevo cacciato alla rinfusa un po' di biancheria e qualche vestito.

- Perchè questo collo appresso? - ha chiesto Lillo, di malumore.

- Ma... non si sa mai: potremmo non tornare stasera. Un uragano, un malessere, la perdita del treno, un incidente qualsiasi... Brontoli perchè mi mostro preveggente?

- Non accadrà nulla: e poi, una valigia bastava!

Infatti una valigia sarebbe stata da preferirsi; ma io sono stranamente affezionata a quel mio scatolone e me lo porto dietro tutte le volte che mi riesce.

- Abbi pazienza... è così comodo! dico, a mo' di scusa.

- Comodo? Non direi! - E Lillo lo consegna, con un biglietto da dieci lire, ad un facchino che, avendo fiutato la preda (forestieri... e sposi!...) ci ronzava intorno offrendo servigi in un dialetto sghangherato e rumoroso come una vecchia ciabatta.

- Sta bene, Signurì! Mò vaco e torno. Vulite spedì? E lassate a me! Io so' Catiello: Vui sapite a Catiello? Catiello 'e Castellammare!... - e gesticolando, vociferando, correndo, sparisce col mio scatolone in un buco nero».

 

La mezz'ora di attesa nel vagone fermo passa tra gli sbuffi di Lillo che «detesta l'immobilità» e l'ansia di Beatrice per il suo «scatolone», che non viene riportato. Poi, «uno stridore di ferramenta, una scrollata vigorosa e... il treno fa per prender la corsa». Allora il conte di Mora, che ha atteso sul marciapiede «balza dentro d'un salto», fermandosi accanto ai due sposini, mentre Beatrice è ancor più preoccupata per il bagaglio. Ecco il prosieguo dell'azione:

 

«Il treno s'incammina davvero.

- Oh Dio! Il mio bagaglio! Lillo! il mio bagaglio!

- Eccolo! - esclama Lillo. Siamo tutti e tre allo sportello. E vediamo Catiello, col mio scatolone sotto al braccio, correre con tutta la forza delle sue gambe. S'aggrappa a non so quale sporgenza del treno, ci accompagna correndo per un tratto. E intanto gesticola, vocifera, spiega:

- Aggiate pacienzia... ...All'urtemo momento chillo... nun a vuluto spedì! Dice che passava le dimensioni regolamentari! Che ce vulite fa? Chesta è a camorra 'e Castiellammare. Teccove 'o bagaglio... (e ci scaglia dentro lo scatolone che ruzzola sul divano) Purtatevello cu' vui ca nisciuno ve dice niente! E teccove 'o riesto! - e getta a Lillo un biglietto da 5 lire. - Chillo 'a vuluto tre lire pa' spedizione; doje lire me so' tenute pe' me, ch'aggio perduto mez'ora, signurì! Tutto pe' chillu 'mpiso!...

Il treno corre sempre: e Catiello finalmente si ferma ansante col berretto in mano, in aria tra soddisfatta e contrita.

Lillo intasca filosoficamente il suo resto: io, felice di riavere il mio scatolone, sorrido. Mora commenta:

- è un giochetto che fanno a tutti i forestieri. Prendono il collo appresso e, d'accordo col compare, fingono di spedirlo. Ma per una ragione o per l'altra, il bagaglio non è in regola: mal chiuso, oltrepassante le dimensioni ecc. e, quando il treno è in moto, lo restituiscono al viaggiatore con molte spiegazioni in più... e qualche lira in meno.

- Dopo tutto è stato onesto - indulge Lillo - Tre lire pel compare e due per sé... mentre poteva squagliarsi con le dieci lire e il bagaglio!

Ridiamo tutti. Il ghiaccio è rotto».

 

Copertina de "La vita in due" di Clelia Pellicano

 

 

Il seguito della gita comprende le insinuazioni di Mora, la visita di Cava, quindi il ritorno. Ma è ormai diverso l'animo di Biciuzza, che, pur attratta dalla magica visione serale del piccolo porto di Torre, non riesce a goderne: «quale meraviglioso scenario perduto per l'amore!». A Torre i due sono attesi dalla carrozza che li riporta a Sorrento; attraverso «la campagna bagnata dal Sarno, oscura e pur ridente del suo riso perenne» arrivano «in vista di monte S. Angelo, ai cui piedi Castellammare, gaja cittadina bellissima, splende per mille fiaccole e risuona di canti», percorrono la strada per Sorrento in un incantato paesaggio notturno. Ma «tutto era bello, inutilmente!», a causa del tarlo che ormai scavava sempre più dentro di lei.

Clelia Pellicano non parla di Castellammare nelle altre novelle della raccolta. In compenso, scrive delle cose molto interessanti nella prefazione aggiunta a La vita in due, datata «Marina di Giojosa Jonica, dicembre 1917» ed ovviamente mancante in Coppie, a proposito del momento della sua vita in cui le novelle nacquero, del luogo dove furono composte, della scelta dello pseudonimo, di come furono accolte dalla critica, di come furono male accolte dai familiari (particolarmente dalla madre e dalla suocera), del perché della seconda edizione.

Da essa estraiamo la bellissima parte autobiografica, in cui sono descritti la villa Pellicano a Quisisana e il particolare momento della vita di Clelia, che vi abitava d'estate e d'inverno, molto amandola ma anche odiandola, e vi scrisse «le novelle dei miei vent'anni», che «della gioventù hanno tutt'i difetti e qualche pregio»:

 

«Era mia dimora, in quel tempo, d'inverno come d'estate, una villa solinga, tra la montagna e il mare. Situata a mezza costa sulla collina di Quisisana, presso Napoli, dava le spalle ai monti di Coppola e di Faìto; e si apriva, dinanzi, sul divino golfo di Castellammare. D'estate, i monti vi gettavano l'ombra folta dei castagneti, impregnandola di frescura; d'inverno si coronavan di nembi come numi irati: in ogni stagione offrendo il più bel paesaggio svizzero che si possa sognare in Italia. Il golfo di Castellammare, ampia conca di smeraldi e zaffiri orlata da l'agata delle spume, aveva quale sfondo il Vesuvio, superbo della sua linea classica non anche deturpata da l'ultima eruzione (che lo decapitò, quasi per castigo) e il suo pennacchio si allungava, a seconda del vento, ora a destra, sulla ridente pianura di Terra di Lavoro, tappezzata di verde, popolata di borghi; ora a sinistra, su Napoli che, pur lontana, trasfondeva nel paesaggio il respiro e il palpito della sua vita immensa. Nello sfondo, le isole di Capri e di Procida sfumavano, vaporose come sogni: da presso, il Castello di Rutigliano rompeva, nero scoglio, fuor del mare che lo flagellava o lambiva d'ogni lato, secondo l'umore. E tutto ciò si abbracciava, in uno sguardo semi circolare, da l'ampia spianata della villa da me detta «La terrazza del Paradiso» perchè si protendeva sugli orti odorosi di gelsomino, rosseggianti di oleandri in fiore; sui poderi che scendevano a valle, nettamente limitati, sul ciglio, da una filza di pini canori.

Io l'amavo e l'odiavo, quella villa che m'impregnava l'anima di poesia e chiudeva tra i suoi cancelli, come in una prigione, la mia gioventù impetuosa. La prediligevo d'autunno, quando, fugato lo stormo dei villeggianti al primo tuono settembrino, restavamo soli in cospetto del paesaggio colorato di luci sanguigne, ricco e languido d'espressioni indefinibili; la paventavo d'inverno, quando non vi giungeva altra voce fuor di quella degli elementi - sibili del vento, ùluli del mare, rombi e boati del Vesuvio; scoppii di folgore sulla montagna, scrosci di pioggia e rimbalzar di grandine: degli elementi che la trasformavano in una bolgia infernale, empiendola d'una vita possente e tragica, cui mescolavo la mia vita con un senso misto d'esaltazione e d'angoscia. Ero sposa, e due maschietti biondi già allietavan le nozze, contratte in un raro e felice connubio della ragione e del cuore. Ma le cognatine e la mamma facevano a gara per alleviarmene il peso e contendermene la cura; mio marito si assentava sovente, a lungo; e poi che i cancelli di Quisisana gli si erano richiusi alle spalle con un cigolìo che mi strideva come lima sottile sui nervi, una solitudine immensa mi sovrastava, generatrice di fantasime d'arte: il Silenzio restava a guardia dei miei sogni come l'invisibile drago della favola a difesa del tesoro incantato.

Fu così che in un divino autunno, mentre la natura cingeva l'agonia della estate di volubili incanti, sì che questa ad ogni ora mi diceva addio con diverso sguardo, le novelle della «Vita in due» mi sbocciarono dentro, in una germinazione tumultuosa e fervida; s'intrecciarono, si snodarono, ora tristi, ora liete a seconda dell'ora, per librarsi dalla «Terrazza del Paradiso» come uno stormo di uccelli ebri di volo. Chiedevano di andare pel mondo a cantare l'eterna canzone delle coppie innamorate, delle umane coppie che l'ebrezza esalta o schianta il dolore; ma la cosa non era facile. I miei parenti erano tutti in supremo grado collet monté come direbbero i nostri alleati francesi; e le mie novelle erano ardite...  troppo ardite! Tali apparivano anche ai miei occhi attoniti, al mio spirito quasi sgomento di aver loro data la vita. Ma la tentazione era forte. Con la complicità di mio marito, scappai a Napoli, dove mi riuscì di trovare un editore disposto a stamparle in nitida edizione».

 

Dopo La vita in due del 1918, Clelia Pellicano continuò la sua campagna a favore delle donne e la sua attività letteraria, ma la sua salute le pose un freno e dovette anche rinunciare a collaborazioni offerte per qualche giornale (ad es. all'invito di Ugo Ricci o Triplepatte per i Mosconi su «Il Mattino» di Napoli).

Morì il 2 settembre 1923 a Castellammare, dove aveva vissuto da giovanissima sposa e madre e dove era nata Jane Grey.

 





 Post fata resurgo

 

(Da «L'Opinione di Stabia», III 131 – Set.-Ott. 2009, pp. 19-21).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

per Stab...Ianus

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