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GIUSEPPE CENTONZE

Alle terme di Castellammare

(Giugno-Luglio 2007)

 

G. Gigante, "Acque minerali di Castellammare" (1864)

 

 

Dopo la scoperta o riscoperta dell’acqua ‘media’, avvenuta nel 1741 per opera del frate Tommaso Ricciardi, Castellammare riacquistò presto l’antica fama perduta di città delle acque (delle quali molti cominciarono a servirsi traendone giovamento, altri scrissero, altri decantarono le virtú, a partire da Luigi Vanvitelli negli anni 1763-1766) e man mano attirò folle sempre piú numerose di ospiti che accorrevano per curarsi.

Dedichiamo a questi ultimi la nostra attenzione, riportando alcune brevi pagine, per lo piú divertenti, che descrivono appunto le figure dei forestieri che ‘prendevano l’acqua’, chiamati dagli Stabiesi nell’Ottocento ‘acquaiuoli’ e poi anche ‘curanti’.

Cominciamo dall’economista e letterato napoletano Carlo Mele (1792-1841), il quale, nelle Rimembranze de’ bagni di Lucca apparse sulla strenna «L’Iride» del 1836, ne fece una descrizione estrosamente grottesca, in contrapposizione con quelli che frequentavano le piú composte terme della città toscana:

 

«Tutto in somma è movimento e faccenda a’ Bagni di Lucca, se tu ne salvi le povere terme, intorno alle quali assai rari appariscono quegli ospiti veramente degni di scena che tanto spesso ti danno innanzi nel nostro Castellammare: vecchie che aspettano dalle onde onore di prole, gobbi che intendono a spianar le spalle coll’acqua media, tisici che ne voglion rifatti i polmoni, idropici che sperano sgonfiar bevendo, sciancati che vorrebbero andar diritti, filze di preti co’ cappelli a gronda, co’ collari a rovescio e sfibbiati e con pertiche in mano, donne con cappellini e con vesti ereditate dalle lor nonne, lacchè colle scarpe di vacchetta messi a pigione in una livrea gallonata, ed altri gruppi di bambocciate che vengono dal fondo di varie provincie a cercar la salute ed a diffonder l’allegria tra gli abitanti dell’antica Stabia».

 

Difformemente, il vecchio arcidiacono Luca De Samuele Cagnazzi (1764-1852), l’economista e matematico di Altamura eletto nel 1848 al nuovo effimero Parlamento napoletano e morto mentre si svolgeva il processo contro di lui per i fatti del 15 maggio, nelle memorie uscite postume col titolo La mia vita annotò la sua buona impressione della dimora a Castellammare, dove nel luglio 1840 era stato «a prendere l’acqua medica», ed elencò alcuni forestieri da lui conosciuti, facendoci cosí anche sapere che molti personaggi importanti, soprattutto ecclesiastici, frequentavano d’estate la città:

 

«Dopo la lunga malattia sofferta mi fu precettato da’ medici di portarmi in Castellammare (anno 1840) a prendere l’acqua medica. Mi ci portai al primo di luglio, e ritornai il 31 di questo. Molto mi divagò quella dimora, ove moltissime accoglienze trovai non solo da cittadini che da forestieri ivi dimoranti per lo stesso oggetto di far uso di quelle acque. Vidi ivi l’Arcivescovo di Salerno, uomo di ottima condotta negli affari. Vidi l’Intendente di Salerno il quale parla bene, ma mi dicevano che non era poi conseguente nell’agire. Molto trattai l’Arcivescovo di Cosenza mio antico amico. Trattai anche Monsignor Lanzetta, Vescovo di Lacedonia, uomo di santissimi costumi. Moltissimi preti ed altri forestieri delle vicine provincie ebbero premura conoscermi e trattarmi, ed io fui compiaciuto della loro prevenzione per me».

 

Lo scrittore svizzero-napoletano Francesco de Bourcard, attento al sociale e al caratteristico, nel primo volume (1857) degli Usi e costumi di Napoli e contorni si soffermò piú ampiamente, con un tono ora serio ora scherzoso o anche mordace, su alcune figure tra le tantissime che andavano ‘alle acque’:

 

«Qual varietà, qual movimento in quel recinto che diletta ed affligge, che offre uno spettacolo misto di allegria e di tristezza! Vecchi e giovani, uomini e donne, belle e brutte, ricchi e poveri, nobili e plebei, ammalati e sani, tutti vanno alle acque [...].

Oh, quanti acquaiuoli!!.. Che brutte figure!!.. Che visi pallidi!.. Che fisionomie sparute!...

Vedi là quella giovanetta?... Ella è tutta intenta a curare sua madre, la quale, seduta sopra un banco di pietra, debole, pallida e stecchita, tenta riacquistare la sanità bevendo la tonica acqua ferrata del pozzillo.

Guarda quell’uomo dal ventre gonfio che passeggia, con un grosso bicchiere pieno della catartica e dioretica acqua media in una mano, e delle ciambellette nell’altra. Egli spera cosí far scemare l’idropica sua epa–croia; e, diventando snello e mingherlino, rendersi piú gradito agli occhi della sua Dulcinea.

Ma chi è quel giovane biondo da’ mustacchi volti all’insú, che tutto si dondola e si pavoneggia presso quel gruppo di fanciulle sedute all’ombra degli alberi? È forse un ammalato?... Oibò!. Egli non manca mai di andare alle acque il mattino, non perché il suo fisico ne senta il bisogno, ma perché là conviene una quantità di belle giovanette, le quali sarebbero desolate di non trovarvelo, per ridere alle costui facezie ai suoi motti arguti o forse alle sue spalle. Egli è uno di quegli odierni lions che corrono dovunque è molta gente, piú per farsi osservare ed ammirare, che per ammirare ed osservare!... E quando da un lato veggo costui, dall’altro scorgo un uomo in su’ quarant’anni, gracile, debole, sparuto con un bicchiere colmo di acqua–sulfurea–ferrata atto a guarirgli un erpete che gli à preso il mento; e, bevendo bevendo, guarda con occhio di commiserazione quel giovane bellimbusto, e pare gli dicesse: — Giovinotto, venti anni or sono anche io era vispo e gaio come te, ma ora... guarda a che mi à ridotto una sregolata e tempestosa gioventú!...».

 

Un altro deputato al Parlamento napoletano del 1848, lo sferzante giornalista e scrittore lucano Ferdinando Petruccelli della Gattina (1815-1890), nato a Moliterno e vissuto lungo tempo a Napoli, fu attirato dagli ‘acquaiuoli’. Nel romanzo Il sorbetto della Regina (1875), ambientato in parte nella Castellammare degli anni ’40 (dove in estate «le acque richiamano gli ammalati da tutti i punti dell’ex‑regno, i gastronomi, che vengono a scontare le indigestioni di dieci mesi, i disgraziati cui la medicina abbandonò»), fece una macchiettistica descrizione di alcuni tipici frequentatori dello stabilimento, còlti tra occasionali e divertenti conversazioni e ridicoli atteggiamenti, ricostruita dalla fantasia dello scrittore, che tuttavia non si lasciava sfuggire curiose situazioni reali. Cosí si presentò a due protagonisti del romanzo, Lena e don Gabriele, l’interno del trascurato stabilimento («un piccolo sito, chiuso da inferriate, detto lo stabilimento, ed una sembianza di giardino, ove l’ortica e la malva si beano nella loro vegetazione spontanea»):

 

«La folla non era meno grande dentro che fuori. Si udiva dire da ogni punto:

— Buon giorno, compare. Hai bevuto?

— Quindici bicchieri, e tu?

— Ah! madama, diceva il vescovo di Policastro a Lena, che si era avvicinata ad una vasca; bisogna convenirne, la natura è prodigiosa. Metter tanti gusti differenti in una sola spaccatura... d’acque!

Infatti, dall’istessa fessura della roccia, appiedi della montagna, sgorgano cinque sorta differenti di acque minerali.

— Dio è grande, monsignore, rispose Lena.

— Principalmente nella varietà delle acque e nell’immensa quantità delle bestie! soggiunse don Gabriele.

— Ho sempre abbisognato di lassativi, io, signora, confidava il sindaco di Aratusa a Lena, mischiandosi alla conversazione ed al capannello che si formava intorno a Lena ed al vescovo. Mia moglie perdeva la pazienza, le mie figlie brontolavano, ed ecco che quest’acqua...

— Siete cattolica, milady? chiese il vescovo.

— Credo, almeno...

— To’! avrei giurato che foste romana, milady, osservò il sindaco. Quella statura... e poi parlate il napoletano a perfezione... Fareste arrossire mio nipote, che studia da sette anni il latino e l’italiano al seminario. E’ dice che io sono un imbecille: e gli altri lo ripetono. E bisogna che ci sia qualcosa di cosí, poiché son tutti del medesimo parere. Malgrado ciò, senza matematiche e senza lingua italiana, ho raggruzzolato una fortuna di 30,000 ducati. Ora, ella mi capisce, monsignore?

— Parola per parola.

— Anche l’intendente mi capisce, quantunque non faccia mai quello che io gli dico, e che io sia obbligato a fare ciò che egli ordina. Ma chi comanda è sempre a tre quarti sordo; la è vecchia. Non è vero, monsignore?

— Voi avete delle opinioni democratiche, signor sindaco, fate attenzione.

— Ah! ah! non sente nessun moto nel suo ventre, monsignore? Col permesso delle loro signorie... se posso esser utile in qualche cosa... Don Michele Cupola, sindaco d’Aratusa. Vengano ad Aratusa... Col loro permesso.

Lena e don Gabriele andarono a passeggiare nel giardino; ma vi erano a percorrere tante giravolte, montando e discendendo, che Lena s’appigliò al partito di sedere sulla terrazza, vicino ad un arciprete che recitava le sue ore.

Ad te, Domine, clamavi... Che caldo, signora! Non ho mai sudato tanto in vita mia, neppure quando concorsi per essere arciprete. Un concorso famoso, signora... Monsignore ne restò stupito... Ad te, Domine, clamavi... Come vi chiamate, signora? Di che paese siete? Vorrei solamente sapere se nel vostro paese incontraste mai mio nipote. Ad te, Domine, clamavi... Non lo credereste, signora? egli è andato a Londra per pagare una ghinea un piatto di maccheroni, e vedere come i cani strozzano i topi, e come si beccano fra loro i galli, per la conquista d’una gallina. Noi vediamo ogni giorno tutto ciò nelle nostre strade. Ad te, Domine, clamavi...

— L’è un uomo prodigioso, vostro nipote, signor arciprete, osservò don Gabriele, che studiava i tipi ed i caratteri pel suo teatro.

Ad te, Domine, clamavi... prodigioso! A chi lo dite? s’imbacucca il tabarro l’estate, ho veduto ciò a Saragozza — e porta calzoni di tela l’inverno. Ha la rabbia di comprar roba vecchia. Corre dietro a tutto ciò che è archeologico, perfino le donne! Ad te, Domine, clamavi... Non parla che di Parigi. Credo che quel paese ha inventate la luna e le anime del purgatorio... Vorrebbe fare un Parigi del nostro borgo. Ad te, Domine, clamavi... Clamavi... Clamavi... L’è arrivato. Col vostro permesso, signora, sono obbligato di assentarmi... Gloria in excelsis».

 

 

Interno delle terme di Castellammare agli inizi del '900

 

 

Rimandiamo poi al numero scorso per l’ampia descrizione fatta da Cesira Pozzolini Siciliani in Napoli e dintorni (1880) fin dal momento dell’ingresso nello stabilimento: le bevute, il girellare «col bicchiere in una mano e co’ tarallucci nell’altra», il chiacchierare cogli amici, le attese, le passeggiate nel boschetto, il bagno, il guaglioncello che per un soldo riempie i bicchieri.

Per finire, due brani particolari.

Il primo è ’A passiata p’’a marina, una gustosa poesia in napoletano del poeta e scrittore stabiese Michele Salvati (oggi piú noto per l’appassionata ricostruzione storica Castellammare di Stabia dal 1848 al 1860) tratta dalla raccolta Ai bagni di Castellammare del 1907, nella quale gli acquaiuoli si dedicano alla passeggiata serale destando una corale curiosità, in un’atmosfera che in qualche punto quasi preannuncia la Rimini descritta da Fellini:

 

               «P’ ’a strada da marina ’e carruzzelle,

           quann’ ’o sole fernesce ’e cammenà,

           scenneno cumm’a ’ttante pecurelle

           purtanno l’acquaiuole a passià.

               Accost’ ’e mare, ncopp’ ’o marciapiere,

           nun ze po’ fa’ nu passo pe’ la folla;

           ’a gente resta cumm’ ’a cannaliere,

           e se va nnante a furia ’e tira e molla.

               E se capisce! Ognuno vo’ verè

           ’o princepe che passa ntir’a quatto,

           ’a marchesa cu’ ’e ffiglie e cu’ bebè,

           ’o conte ca ghiucanno s’è rifatto,

           ’a nutriccia cu’ nnocche e pettenesse,

           e nu pietto abbuffato cumm’ ’a vvotta,

           ’o pascià cu’ quaranta principesse,

           ’o viecchio senatore cu’ ’a cocotta:

           gente ca veve ll’acqua minerale

           e piglie ’e bbagne ogn’anno a ’sta città;

           gente ca s’è scurdata d’ogne male,

           ca sulo de salute po’ crepà».

 

Il secondo è il personale e originale ricordo delle terme che il poeta contemporaneo Alberto Mario Moriconi lasciò non senza la consueta ironia e le tipiche citazioni nell’articolo Che c’è da bevere, inserito nella pubblicazione del Circolo Artistico di Castellammare per il XX Premio Letterario «Stabiae» (1973):

 

«Di Castellammare io conosco le Vecchie Terme e le Nuove. Ho visto bere insospettabilmente una creatura incantevole, in una mattina di primo giugno, quattro giarre (spagnolo jarras) l’una dopo l’altra, con una misura, uno stile... una disinvoltura, bravura, cuatro jarras, fuori misura: adorabile. Fu allora —piccola epatopatia, e sia: monceau d’entrailles, pitié douce, ô femme— che, o per tenerezza nuova o per miracolo catartico dell’Acqua della Madonna (la prim’acqua da me sorseggiata, per farle compagnia), e per la levità che ne consegue e l’effusioni liriche collaterali (corpus sanum —et defluum— pro mente sana), fu allora e lí, alle Terme Antiche, che mi rinnamorai di lei. E mi son trovato bene, tutto sommato.

Mi resta la curiosità degli altri ventisette sapori, di quelle acque. Alle Terme Nuove ho bevuto solo, una volta, il profumo il silenzio i colori d’un tramonto di settembre fra erbe foglie e fiori, su un ponticello: con me due cigni (soprappensiero: io no, bevevo, dimenticavo)».

 

 

 Post fata resurgo

 

(Da «L'Opinione di Stabia», XI 118 – Giugno-Luglio 2007, pp. 18-19; 27).

(Fine)

 

 Ex Studiis Iosephi Centonze

 

 

 

 

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