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GIUSEPPE CENTONZE

L'idronimo Sarnus nelle fonti
antiche e medievali

(1989)

 

 

L'uso piú antico, nella letteratura in latino, dell'idronimo Sarnus, ossia del termine corrispondente all'odierno Sarno e significante il fiume della Campania che nasce dalle pendici dei monti prossimi alla omonima città di Sarno, da quelli intorno alla città di Nocera e da altri piú interni e sbocca nel Golfo di Napoli a Nord di Castellammare di Stabia, risale a Virgilio, al piú famoso poeta latino, che sulle sponde di quel golfo visse, dal 42 al 39 a. C., un'esperienza fondamentale per la sua formazione culturale e poetica.

In Aen. VII Virgilio infatti narra dell'arrivo di Enea nella 'terra promessa'. Egli vi descrive la risalita del Tevere, l'accoglienza benevola da parte del re Latino, che all'eroe troiano offre in moglie la figlia Lavinia, e il successivo rovinarsi dei rapporti per l'odio di Giunone. Divenuta inevitabile la guerra, tutta l'Italia è in armi; e il poeta, presso il quale vix tenuis famae perlabitur aura (646), chiede alle Muse, che "ricordano" e pertanto possono "tramandare" (645 Et meministis enim, divae, et memorare potestis) di dire i re, i popoli, gli eroi, le armi d'Italia coinvolti nello scontro. Nel lungo elenco compare Ebalo, nato da Telone re dei Teleboi di Capri e dalla ninfa Sebetide, il quale ha esteso il suo dominio ai Sarrasti (Sarrastis populos) ed alle "terre che il Sarno irriga" (quae rigat aequora Sarnus), oltre che ad altre genti e terre della Campania:

Nec tu carminibus nostris indictus abibis, / Oebale, quem generasse Telon Sebethide nympha / fertur, Teleboum Capreas cum regna teneret, / iam senior; patriis sed non et filius arvis / contentus late iam tum ditione premebat / Sarrastis populos et quae rigat aequora Sarnus / quique Rufras Batulumque tenent atque arva Celemnae / et quos maliferae despectant moenia Abellae, / Teutonico ritu soliti torquere cateias; / Tegmina quis capitum raptus de subere cortex, / aerataeque micant peltae, micat aereus ensis. (Aen. VII 733-743)

La citazione virgiliana ci riporta indirettamente a tempi antichissimi, nei quali i fatti e le figure degli uomini si perdono nelle leggende, o nel mito, o nel sogno con cui si confondono la memoria, la tradizione. Eppure, poiché la tenuis famae aura pare abbia talvolta rivelato al poeta e per il suo tramite trasmesso a noi verità inimmaginabili o, forse, solo impensate - è il caso di 'leggende' virgiliane poi avvalorate dall'archeologia -, non è da escludere che anche questo passo, che pone il rapporto Sarrasti-Sarno, possa costituire, ancor piú di quanto non lo sia già, una fonte importante, non solo riguardo all'etimo di Sarrastes e alla relazione con Sarnus (alla luce anche del relativo commento di Servio piú avanti riportato, nonché dei documenti epigrafici e delle iscrizioni su monete che si rivelassero utili), ma anche riguardo alla veridicità e al periodo della presunta dominazione dei mitici Teleboi, forse predoni dell'Acarnania colonizzati a Capri, sul territorio intorno al Sarno. Ma è problema certamente non semplice, che si vuole solo evidenziare.

Intanto giova considerare qui quanto appare, in relazione a questo passo, nel piú tardo commentario di Servio (IV-V sec.), non escludendo le notizie riguardanti Ebalo e i Teleboi, direttamente legati nel brano virgiliano al Sarno.

Il sintetico commento ad Oebale del v. 734 si limita, tuttavia, a ripetere le notizie virgiliane, con l'aggiunta che la ninfa Sebetide è iuxta Neapolim sita e con l'indicazione, a proposito di Ebalo non contento dei domini paterni, di un generico passaggio ad Campaniam:

Oebalus filius est Telonis et nymphae Sebethidis. Haec autem est iuxta Neapolim sita. Filius vero eius, patriis non contentus imperiis, transiit ad Campaniam et multis populis subiugatis suum dilatavit imperium.

Nel commento a 735 Teleboum Capreas cum regna teneret è aggiunta l'ipotesi della derivazione da Capreo del nome Capri:

Cum teneret Capreas, regna Teleboum: nam Teleboae Caprearum sunt populi, quos Telo suo regebat imperio. Quidam dicunt Capreas a Capreo, qui in illis regionibus potens fuit, nominatas.(1)

Particolarmente rilevante è, invece, il commento a 738 Sarrastis populos, che pone il rapporto Sarrastis-Sarnus e contiene in aggiunta l'interessante citazione dal libro sull'Italia di Conone, secondo il quale "alcuni Pelasgi ed altri usciti dal Peloponneso giunsero in quel luogo d'Italia, che non aveva alcun nome prima, e diedero il nome di Sarro al fiume presso il quale abitarono, dalla denominazione del fiume della loro patria, e chiamarono se stessi Sarrastri e fondarono molte città tra cui Nocera":

Populi Campaniae sunt a Sarno fluvio. Conon in eo libro, quem de Italia scripsit, quosdam Pelasgos aliosque ex Peloponneso convenas ad eum locum Italiae venisse dicit, cui nullum antea nomen fuerit, et flumini quem incolerent, Sarro nomen inposuisse ex appellatione patrii fluminis, et se Sarrastros appellasse. Hi inter multa oppida Nuceriam condiderunt.(2)

In tal caso i Sarrasti, in origine Pelasgi e Peloponnesiaci, si sarebbero chiamati cosí dal nome da loro stessi dato al fiume Sarno (o Sarro), che prima del loro arrivo non avrebbe avuto nome (Conone, tuttavia, non specifica se quei luoghi fossero anche disabitati). Sarnus sarebbe allora di probabile origine greca e deriverebbe, attraverso Σάρνος, da Σάρων; derivazione che si potrebbe ricavare, con il dubbio posto dalla errata tradizione manoscritta, anche da quanto afferma in flum. 138 Vibio Sequestre(3), come si vedrà.

L'idronimo Sarnus non lo rinveniamo nelle opere dei contemporanei di Virgilio, neppure nelle parti rimasteci della ponderosa opera di Livio, dove invece appare il simile Arnus (sc. l'Arno), col quale, come si vedrà, esso sarà confuso.

Tuttavia è testimoniato l'uso di Σάρνος, il corrispondente greco di Sarnus, nella Geografia di Strabone.

Il geografo e storico greco parla del Sarno a proposito della Campania, nell'àmbito del piú ampio discorso sull'Italia, che egli conosceva direttamente in gran parte. Ne parla dopo le considerazioni sul 'modo di vivere greco' a Napoli e prima della descrizione del Vesuvio:

Ἐχόμενον δὲ φρούριόν ἐστιν Ἑράκλειον, ἐκκειμήνην εἰς τὴν θάλατταν ἄκραν ἔχον, καταπνεομένην Λιβὶ θαυμαστῶς, ὥσθ̕ ὑγιεινὴν ποιεῖν τὴν κατοικίαν. Ὄσκοι δὲ εἶχον καὶ Πελασγοί, μετὰ ταῦτα δὲ Σαυνῖται· καὶ οὗτοι δ̕  ἐξέπεσον ἐκ τῶν τόπων. Νώλης δὲ καὶ Νουκερίας καὶ Ἀχερρῶν, ὁμωνύμου κατοικίας τῆς περὶ Κρέμωνα, ἐπίνειόν ἐστιν ἡ Πομπηία, παρὰ τῷ Σάρνῳ ποταμῷ καὶ δεχομένῳ τὰ φορτία καὶ ἐκπέμποντι. ὑπέρκειται δὲ τῶν τόπων τούτων ὄρος τὸ Οὐέσουιον [...] (Geogr. V 246-247)(4).

Nel passo risultano rilevanti le notizie sulla navigabilità e sulla funzione commerciale del fiume, che costituiva uno sbocco economicamente notevole per gli interni centri di Nuceria, Nola ed Acerrae, oltre che per Pompeii, il cui porto finiva cosí per assumere un ruolo di primaria importanza, soprattutto dopo che Silla distrusse Stabiae nell'89 a. C.(5). Non meno interessante risulta quanto Strabone afferma sull'avvicendamento dei popoli che occuparono prima dei Sanniti e dei Romani la zona del Sarno, almeno quella piú vicina a Pompei: nominando tra questi i Pelasgi egli ne conferma la presenza intorno al Sarno cosí come voleva Conone nella citazione di Servio danielino; ma asserendo che essi e i Tirreni sarebbero stati preceduti certamente dagli Oschi ne esclude l'ipotetico primato(6).

Non mancano, intanto, documenti con iscrizioni osche in probabile relazione coi termini Sarrastes e Sarnus.

In relazione con Sarrastes sembra l'iscrizione Sarasneis su monete osche da Nocera(7). In iscrizioni osche rinvenute a Pompei si legge Sarinu e Veru Sarinu(8) (= "Porta Sarina") che, messi, come furono, in relazione col fiume, avrebbero potuto far richiamare anche Sarrus o Sarros(9) o Saron(10) e ipotizzare una successiva contrazione del termine in Sarnus(11).

La relazione coi Tirreni, anche dei quali Strabone dice che avevano occupato la zona del Sarno, è stata altresí rintracciata nel nome sia del popolo, come rivelerebbe il suffisso etrusco -tra riconoscibile nella versione Sarrastres(12), sia del fiume (che tra l'altro somiglia per molti aspetti al toscano Arnus, tanto che il Cluverio voleva che i due fiumi segnassero i limiti, a Nord ed a Sud, del territorio etrusco), come rivelerebbe il suffisso etrusco -n dopo il tema mediterraneo ar ("acqua").

Strabone non parla, invece, dei Fenici, che pure avrebbero potuto abitare la zona del Sarno e che pure avrebbero potuto dar origine all'idronimo, se è vero che Saron è anche toponimo palestinese e che Sarra corrispondeva a Tor, cioè alla Tiro dei Fenici, e che in latino Sarranus stava ad indicare "tirio" o "fenicio".

Ma torniamo alle fonti letterarie che testimoniano l'uso di Sarnus.

Trascorsa l'età augustea, l'idronimo lo troviamo documentato, sotto Nerone, nella Farsaglia di M. Anneo Lucano.

Nel II libro dell'incompiuto poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo il poeta descrive velocemente la lunga catena montuosa dell'Appennino, luogo di operazioni belliche, la quale, posta al centro dell'Italia e ricca di sorgenti, manda giú nei due mari, dai suoi due versanti, abbondanti corsi d'acqua. Tra i fiumi formati sul versante destro, descritti con qualche breve immagine o con qualche bel colore, ma anche, in verità, elencati senza alcun ordine preciso, non appare il pur importante Arno, appare invece la ben piú breve Magra, al confine della Toscana con la Liguria, ed appare il campàno Sarno, caratterizzato con l'immagine della notturna nebbia che da esso esala (nocturnaeque editor aurae / Sarnus)(13):

Dexteriora petens montis declivia Thybrim / unda facit Rutubamque cavum; delabitur inde / Vulturnusque celer nocturnaeque editor aurae / Sarnus et umbrosae Liris per regna Maricae / Vestinis inpulsus aquis radensque Salerni / tesca Siler nullasque vado qui Macra moratus / alnos vicinae procurrit in aequora Lunae. (Phars. II 421-427)

Nell'età flaviana l'idronimo appare in Plinio il Vecchio e nei poeti Stazio e Silio Italico.

Plinio il Vecchio (còlto dalla morte nell'agosto del 79, durante l'eruzione del Vesuvio, come si sa, proprio nel territorio alla foce del Sarno, a Stabiae) parla del fiume campàno nel III libro della Naturalis historia, il primo dei quattro (III-VI) di argomento geografico ed etnografico. In esso egli parla dell'Europa occidentale e meridionale e concede molto spazio e molte lodi all'Italia, che percorre regione per regione; quando, non senza l'elogio delle sue celebrità, descrive felix illa Campania (9,60), in particolare la sua costa da Napoli a Sorrento, cita anche il Sarno (Sarno amne), posto tra Pompei e il territorio nocerino con la stessa Nocera distante nove miglia dal mare:

Litore autem Neapolis, Chalcidensium et ipsa, Parthenope a tumulo Sirenis appellata, Herculaneum, Pompei haud procul spectato monte Vesuvio, adluente vero Sarno amne, ager Nucerinus et VIIII p. a mari ipsa Nuceria, Surrentum cum promunturio Minervae, Sirenum quondam sede (nat. hist. III 9,62).

Anche in questo caso la citazione dell'idronimo rientra nella descrizione geografica, ma in un contesto decisamente sistematico e certamente ordinato date le caratteristiche dell'opera di Plinio. Semmai, questa volta, l'ordine fin troppo chiaro potrebbe forse rendere incerti se attribuire adluente vero Sarno amne a Pompei, come appare nel testo proposto e piú chiaramente nella traduzione, e come induce a credere il dovuto confronto col passo poco fa citato di Strabone, oppure all'ager Nucerinus, forse allora comprendente anche il territorio stabiano, come voleva il Beloch(14), come sarebbe maggiormente evidente ponendo nel testo una virgola dopo Pompei. Ma si tratta, in fondo, di problema non rilevante e l'incertezza interpretativa corrisponde alla posizione del fiume, in mezzo ai due territori.

Da notare come piú avanti nello stesso libro, parlando della sesta regione, comprendente l'Umbria e il territorio dei Galli al di qua di Rimini, e facendo l'elenco degli abitanti delle sue città, tra i quali appaiono anche i Nocerini Favoniensi e i Nocerini Camellani (19,114 Nucerini cognomine Favonienses et Camellani) omonimi dei Nocerini della Campania, Plinio citi tra quelli scomparsi i Sarranati insieme con le loro città di Acerra Vafria e Turocelo Vettiolo:

In hoc situ interiere Feliginates et qui Clusiolum tenuere supra Interamnam et Sarranates cum oppidis Acerris quae Vafriae cognominabantur, Turocaelo quod Vettiolum, item Solinates, Curiates, Falinates, Sapinates (nat. hist. III 19,114).

Si tratta di una delle imprecisioni dello studioso latino, visto che i Sarranates sembrerebbero essere gli stessi Sarrastis populos di Virgilio (Aen. VII 738) e di Silio Italico (Pun. VIII 536) e che nell'intero passo di Silio Italico in questione (Pun. VIII 532-546), piú avanti riportato, appare accostata ai Sarrasti la città campana di Acerra, come prima erano apparsi dei Nocerini?

Con Stazio ci immergiamo nella cólta poesia d'occasione, artificiosa, è vero, soprattutto per i continui riferimenti mitologici, ma non raramente rivelante chiari sentimenti e commossa partecipazione.

Il poeta napoletano cita il Sarno nel I libro, pubblicato nel 92-93, della sua opera 'lirica', le Selve, e precisamente nel II carme, un epitalamio di 277 versi composto non oltre l'89 per le nozze del poeta padovano Lucio Arrunzio Stella (cui il libro è dedicato) con la napoletana Violentilla. Qui egli, nel mentre fa una dichiarazione di poetica all'amico Stella, con cui dice di avere in comune la poesia dotta, non sa tacere l'orgoglio che la bella Violentilla (cui si riferisce il te del v. 260) costituisce per Napoli, per tutta la terra euboica e per il fiume Sebeto, perché le Naiadi del lago Lucrino non potrebbero vantarsi di piú per i loro antri sulfurei, né di piú potrebbero vantarsi gli "ozi del Sarno pompeiano" (Pompeiani... otia Sarni):

Me certe non unus amor simplexque canendi / causa trahit: tecum similes iunctaeque Camenae, / Stella, mihi, multumque pares bacchamur ad aras / et sociam doctis haurimus ab amnibus undam. / At te nascentem gremio mea prima recepit / Parthenope, dulcisque solo tu gloria nostro / reptasti. Nitidum consurgat ad aethera tellus / Eubois et pulchra tumeat Sebethos alumna; / nec sibi sulpureis Lucrinae Naides antris / nec Pompeiani placeant magis otia Sarni. (Silv. I 2,256-265)

Dal passo si ricaverebbe che, poco tempo dopo l'eruzione del Vesuvio del 79 d. C., la zona pompeiana del Sarno, tradizionalmente nota per la tranquillità che offriva, poteva ancòra costituire un vanto ed essere considerata tra le celebrità della regione per i suoi "ozi"; ma otia potrebbe anche riferirsi, piú verosimilmente, al lento e tranquillo percorso del fiume nei pressi di Pompei e pertanto connotare una decantata caratteristica del paesaggio pompeiano e sarnese.

Nomina il Sarno, poi, Silio Italico nel suo poema sulla seconda guerra punica composto dall'88 in poi, i Punica appunto.

Nel libro VIII ci è mostrato uno Scipione attivissimo, che raccoglie, arma, addestra e conduce alla guerra i guerrieri campani, dando egli stesso spettacolo di abilità e coraggio. Nel nutrito elenco delle genti campane che lo seguono compaiono prima quelle della parte settentrionale della regione, da Sinuessa a Cuma, poi le altre, compresi i popoli sarrasti (Sarrastis... populos) e le armi del "mite" Sarno (Sarni mitis opes):

Illic Nuceria et Gaurus, navalibus acta / prole Dicarchea; multo cum milite Graia / illic Parthenope ac Poeno non pervia Nola, / Allifae et Clanio contemptae semper Acerrae. / Sarrastis etiam populos totasque videres / Sarni mitis opes; illic, quos sulphure pingues / Phlegraei legere sinus. Misenus et ardens / ore giganteo sedes Ithacesia Bai; / non Prochyte, non ardentem sortita Typhoea / inarime, non antiqui saxosa Telonis / insula, nec parvis aberat Calatia muris; / Surrentum et pauper sulci cerealis Abella; / in primis Capua, heu rebus servare serenis / inconsulta modum et pravo peritura tumore! / Laetos rectoris formabat Scipio bello. (Pun. VIII 532-546)

Nel passo si intravede piú o meno chiaramente il debito di Silio nei confronti di Virgilio, che egli pare riecheggiare sia nel richiamo del mitico nome di Telone, sia nell'accostamento dei Sarrasti al Sarno. In piú, però, Silio aggiunge e propone immagini nuove o interpreta, talvolta ricorrendo alla sua tipica aggettivazione; e pertanto il Sarno diventa mitis, la malifera ("produttrice di mele" o "di frutti" o forse, anche meglio, "di nuces") Abella di Virgilio diventa, con l'inserimento di una immagine ovidiana(15), la pauper sulci cerealis ("povera di messi", "povera di campi coltivati") Abella. Ma l'elenco non sembra corrispondere ad una precisa e ordinata descrizione: si parte da Nocera accostata al monte Gaurus, e nemmeno sorge il dubbio che si tratti dell'attuale Faito (nel territorio dell'antica Stabia forse aggregata a Nocera, come voleva, si è detto, il Beloch) al quale anche, talvolta, potrebbe essere riferito il nome del 'cumano' Gaurus, che súbito dopo si parla di Pozzuoli, e poi si prosegue con Napoli e si procede verso l'interno toccando Nola, Alife ed Acerra per trovare qui il riferimento ai Sarrasti ed al Sarno e quindi ai Phlegraei sinus ed a Miseno; sicché diventa impossibile ogni tentativo di assegnare ai Sarrasti, almeno interpretando il pensiero di Silio, questa o quella zona, interna o sulla costa, intorno al Sarno o anche oltre le sue origini.

Silio cita di nuovo i Sarrasti nella concitata descrizione della tremenda battaglia di Canne, quando, dopo la "bella" ed onorevole morte del console Paolo (X 307-308 Mors additur urbi / pulchra decus), con la guida si perse ogni speranza, e ci fu il disastro per l'esercito romano: anche i Sarrastes populi lasciarono sul campo le insegne e la vita:

Postquam spes Italum mentesque in consule lapsae, / ceu truncus capitis, saevis exercitus armis / sternitur, et victrix toto fremit Africa campo. / Hic Picentum acies, hic Umber Martius, illic / Sicana procumbit pubes, hic Hernica turma. / Passim signa iacent, quae Samnis belliger, et quae / Sarrastes populi Marsaeque tulere cohortes; / transfixi clipei galeaeque et inutile ferrum / fractaque conflictu parmarum tegmina et ore / cornipedum derepta fero spumantia frena. / Sanguineus tumidas in campos Aufidus undas / eiectat redditque furens sua corpora ripis. (Pun. X 309-320)

Con Gaio Suetonio Tranquillo entriamo nel periodo traianeo.

L'erudito biografo cita il Sarno nella parte rimastaci del De viris illustribus, l'opera pubblicata, come alcuni vorrebbero, súbito dopo il 106 o il 109. Lo cita nella sezione De grammaticis et rhetoribus, che costituisce l'assoluta novità dell'opera, piú precisamente nel cap. IV della incompleta parte De claris rhetoribus. Riportiamo intero il capitolo, il quale nella sua brevità caratterizza anche il tipo di biografia suetoniana, dove sono privilegiati l'aneddoto, la curiosità. Vi si tratta di un certo Epidio, un retore del tempo di Augusto, di buon nome tra i contemporanei se aveva avuto come discepoli Marco Antonio e lo stesso Augusto, ma segnato per calunnia e per questo disprezzato a quanto pare, e tuttavia con una sua storia particolarissima o unica, certamente invidiabile e, pertanto, tutta da partecipare: egli traeva origine da un Epidio Nocerino "precipitato nella fonte del fiume Sarno, poco dopo ricomparso con le corna, quindi divenuto invisibile e annoverato tra gli dèi":

Ad id tempus Epidius calumnia notatus ludum docendi aperuit; docuitque inter caeteros Marcum Antonium et Augustum. Quibus quondam Caius Canidius obicientibus sibi quod in Republica administranda potissimum consularis Isaurici sectam sequeretur, malle respondit Isaurici esse discipulum, quam Epidii calumniatoris. Hic Epidius ortum se ab Epidio Nucerino praedicabat: quem ferunt olim praecipitatum in fontem fluminis Sarni, paulo post cum cornibus extitisse, ac statim non comparuisse, in numeroque deorum habitum (gramm. 28).

Suetonio è cosí indirettamente testimone dell'esistenza di antiche leggende intorno al Sarno. Questa leggenda in particolare pare essere anche il segno, nella zona nocerino-sarnese, di una religiosità tipicamente agreste ed insieme strettamente legata al luogo, come farebbe pensare la comparsa delle corna dopo l'emersione da un fiume caratterizzato certamente dalla capacità di pietrificare, o, meglio, di incrostare corpi solidi con le sue acque(16).

 

 

Nell'età degli Antonini non vi sono fonti letterarie che documentino l'uso di Sarnus. In essa, tuttavia, si pongono le epigrafi ritrovate in Algeria, dedicate a personaggi di una delle quattro colonie cirtensi, la colonia Sarnia Milevitana(17), fondata da Publio Sizio Nocerino, dal quale Catilina si diceva appoggiato nella sua lotta, ma che Cicerone stesso difese dall'accusa di aver partecipato alla congiura e che Cesare fece governatore di Cirta in cambio dell'appoggio da lui avuto in Mauritania(18). In queste epigrafi non si nomina Sarnus, ma un suo aggettivo. Una di esse è dedicata a Quinto Sizio, che aveva ricoperto molte cariche tra cui quella di prefetto di giustizia della colonia Sarnia Milevitana: Q(uinto) Sittio, Q(uinti) fil(io), Quir(ina tribu), Fausto, triumviro, praef(ecto) j(uri) d(icundo) col(oniae) Veneriae Rusicade, et col(oniae) Sarn Milev, et col(oniae) Minerviae Chullu, aedili, Municipes, ob merita ejus, aere conlato (2323). Un'altra è dedicata ad Apronia moglie dello stesso Quinto Sizio prefetto di giustizia della colonia Sarnia Milevitana: Aproniae, Sex(ti) fil(iae), Fidae, conjugi Q(uinti) Sittii, Q(uinti) fil(ii), Quir(ina tribu), Fausti, probati ab imp(eratoribus) L(ucio) Septimio Severo Pio Pertinace Aug(usto) Aurelio Antonino Aug(usto), in quinq(ue) decurias allecti a divo M(arco) Antonino Pio, flam(inis) perp(etui)... praef(ecti) j(uri) d(icundo) [Co]l(oniae) Sarn Mil(ev)... Amici, ob merita mariti [ej]us in se, aere conlato... (2324). Una terza attesta a Cirta il nome Sarnia Saturnina: D(iis) M(anibus). Sarnia Saturnina. V(ixit) a(nnis)... (2088)(19).

Le opere letterarie latine fin qui citate e contenenti l'idronimo ebbero diversa fortuna nel corso dei secoli. Sia i Punica di Silio Italico, sia le Selve di Stazio rimasero ignote per gran parte del medioevo (anche a Dante, a Petrarca ed a Boccaccio) finché non furono riscoperte insieme, nel medesimo codice, nel 1416-17 da Poggio Bracciolini. Identica sorte ebbe il De grammaticis et rhetoribus, contenuto in uno dei codici di Hersfeld segnalati nel 1425 a Roma a Poggio Bracciolini dal frate tedesco Enrico di Gravenstein e portato in Italia trent'anni dopo. Certamente note furono, invece, le opere di Plinio il Vecchio e di Lucano, anche se l'opera di Plinio, data la vasta proporzione e la caratteristica di opera erudita, non poteva avere ampia diffusione. Ma la piú diffusa, la piú nota e la piú studiata per tutto il medioevo ed anche prima, nella cosiddetta età del Basso Impero, fu la piú antica di esse, l'Eneide: tanta era l'auctoritas di Virgilio. Non meraviglia, quindi, che sia molto legato, piú o meno direttamente, al nome di Virgilio l'uso successivo di Sarnus.

 

* * *

 

Nell'età del Basso Impero si hanno non tanto esempi letterari dell'uso dell'idronimo, quanto citazioni in itinerari o in testi di erudizione.

Intanto la Tabula Peutingeriana, la carta itineraria giunta a noi attraverso una tarda copia il cui originale risalirebbe al III o al IV sec. d. C., non registra il nome del Sarno, del quale pur traccia il percorso (stranamente compare come un suo ramo, e con l'indicazione del nome Silarus, il Silaro o Sele che sfocia nel golfo di Salerno): il fiume, proveniente dall'interno, dopo la diramazione tocca il territorio nocerino, quindi sfiora Pompei interrompendo la via di dodici miglia che la congiunge a Nocera e, in parallelo con una piú settentrionale via di tre miglia che da Pompei porta a Nord di Stabia (Stabii) ed a Sud di Oplonti, va a sfociare sopra il non nominato seno stabiano(20). Ma il cartografo si preoccupa soprattutto della indicazione delle strade dell'impero e delle stazioni con le relative distanze in miglia, inserite tutte in una pratica striscia lunga ben 6,83 m. e larga appena 34 cm. da portarsi arrotolata; per cui il disegno è fin troppo deformato.

 

 

Sarnus è invece nominato come fiume e come monte in Vibio Sequestre (IV sec.). Tra i Flumina elencati, è da notare, non compare Arnus; compare invece il Sarno con questa definizione:

Sarnus, Nuceriae, ex Sarone fluvio + hadriae +, per Campaniam decurrens (flum. 138)(21).

Chiaramente si vede l'errore nella tradizione manoscritta che molti hanno cercato variamente o di correggere o di interpretare, non ritenendo possibile che il fiume campàno avesse preso il suo nome dal fiume Saron dell'Adriatico.

Giova, però, considerare la già riportata citazione di Conone nel commento di Servio ad Aen. VII 738, secondo la quale dei Pelasgi ed altri provenienti dal Peloponneso si sarebbero fermati presso il fiume chiamandolo col nome del fiume della loro patria, "Sarro"; per cui, in tal caso, ed a meno che l'errore non derivi da meccanica ripetizione della voce 142 (Saron, Hadriae) come congettura il Gelsomino(22), hadriae andrebbe corretto in Achaiae o in Argolidos o in altro.

Vibio Sequestre cita, come si diceva, anche tra i Montes un "Sarnus, Nuceriae" (flum. 305). Sarnus come monte era termine sconosciuto, in quanto mai apparso prima; di qui il sospetto di una errata ripetizione della voce corrispondente al fiume, o della confusione del fiume col monte(23).

Tra il IV ed il V secolo Sarnus compare nel commentario virgiliano di Servio, in relazione ad Aen. VII 738, come s'è visto; e con questo commento rientriamo in uno di quei casi direttamente legati a Virgilio.

Il poeta mantovano però, nonostante la sua fama di mago, non avrebbe mai immaginato che Sarnus di Aen. VII 738 avrebbe significato, nel futuro, anche "Arno".

Eppure, proprio rifacendosi a questo passo virgiliano e citandolo non opportunamente, agli inizi del V secolo lo storico cristiano Paolo Orosio, nei suoi divulgati Historiarum adversum paganos libri VII, identifica con il Sarnus dell'Eneide l'Arno che con le sue inondazioni rese disastroso il percorso toscano di Annibale:

Igitur Hannibal sciens Flaminium consulem solum in castris esse, quo celerius imparatum obrueret primo vere progressus arripuit propiorem sed palustrem viam et cum forte Sarnus late redundans pendulos et dissolutos campos reliquerat, de quibus dictum est: 'et quae rigat aequora Sarnus'. In quos cum exercitu progressus Hannibal nebulis maxime, quae de palude exhalabantur, prospectum auferentibus magnam partem sociorum iumentorumque perdidit. Ipse autem uni elephanto, qui solus superfuerat, supersedens, vix difficultatem itineris evasit; sed oculum, quo iamdudum aeger erat, violentia frigoris vigiliarum ac laboris amisit (IV 15,2-3).

La fonte di Orosio, relativamente a questa parte dell'opera, è Tito Livio, il quale nel "narrare la guerra di gran lunga piú degna di essere ricordata tra tutte quelle che furono combattute, cioè la guerra che i Cartaginesi, al comando di Annibale, fecero al popolo romano" (XXI proem.), parla, appunto, delle paludi formate dalla piena dell'Arno: una via piú breve seppure piú scomoda attraverso la quale Annibale decise di far passare l'esercito con l'intento di sorprendere Flaminio ad Arezzo:

Dum consul placandis Romae dis habendoque dilectu dat operam, Hannibal profectus ex hibernis, quia iam Flaminium consulem Arretium pervenisse fama erat, cum aliud longius, ceterum commodius ostenderetur iter, propiorem viam per paludes petit, qua fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat (XXII 2,1-2).

E Livio poi continua descrivendo con precisione le impreviste difficoltà del percorso, che per piú giorni causarono gravissime perdite in tutta la colonna, anche delle bestie da soma o da tiro; e narra come lo stesso Annibale fosse salvo grazie all'unico elefante rimastogli e tuttavia perdesse un occhio, di cui già prima era ammalato, per l'infiammazione determinata dall'aria umida e dalla palude malsana e non curata in quella eccezionale circostanza:

Ipse Hannibal, aeger oculis ex verna primum intemperie variante calores frigoraque, elephanto, qui unus superfuerat, quo altius ab aqua exstaret, vectus, vigiliis tamen et nocturno umore palustrique caelo gravante caput, et quia medendi nec locus nec tempus erat, altero oculo capitur (ibid.).

Livio a sua volta attinge, in questo caso, certamente a Polibio, il quale, in III 78-79, parla chiaramente delle paludi ma non fa riferimento al fiume Arno (la strana lacuna è dovuta ad una sfortunata tradizione manoscritta?).

Come Orosio abbia potuto leggere Sarnus l'Arnus di Liv. XXII 2,2 e abbia potuto poi riferire ai luoghi della Toscana il Sarnus di Verg., Aen. VII 738, cadendo cosí in un secondo errore, è davvero arduo stabilirlo.

La tradizione orosiana potrebbe essere derivata tutta da un solo codice dove un interpolatore, citando Virgilio, abbia creato la confusione poi accolta e trasmessa. Ma questa è possibilità molto improbabile e non v'è, a quanto pare, nessuna traccia che la conforti. Pertanto è, presumibilmente, Orosio stesso l'autore del 'pasticcio'. Forse, almeno in parte, indirettamente: o in quanto ha fatto propria l'errata lettura Sarnus contenuta in una non troppo precisa epitome di Livio non pervenutaci e vi ha lasciato o aggiunto a sproposito la citazione virgiliana; o in quanto ha accettato la identificazione Sarnus = Arnus proposta in una glossa al testo liviano e vi ha aggiunto la citazione virgiliana; o in quanto ha accettato la medesima identificazione proposta in una glossa al testo virgiliano e, di conseguenza, ha riportato come Sarnus l'Arnus liviano ed ha poi citato il luogo virgiliano. Oppure direttamente: o in quanto ha letto Arnus come Sarnus sulla sola base del suo personale ed equivoco ricordo del verso virgiliano da lui poi anche citato; o in quanto - come piú verosimilmente propose l'editore critico K. Zangemeister(24) - ha letto non correttamente il testo liviano, che probabilmente presentava un fluviusarnus come un fluviussarnus, ha riproposto ingenuamente come Sarnus il fiume che impediva la marcia di Annibale in Toscana e, per di piú, ancora errando, ha citato il Sarnus virgiliano che certamente non irriga i luoghi allora attraversati da Annibale.

L'esatta identificazione Sarnus = Sarno, ai tempi di Orosio, potrebbe anche essere stata ostacolata dall'uso di un diverso toponimo del fiume campàno.

Infatti, se pure centocinquant'anni dopo, è attestato l'idronimo Δράκων (lat. Dracon o Draco, "Dragone", "Dracone", "Drago", "Serpente": forse per il corso serpeggiante di una parte o di un rivo del fiume) alla fine del De Bello Gothico di Procopio di Cesarea, laddove lo storico bizantino del VI secolo, narrando gli avvenimenti che posero fine alla guerra dei bizantini comandati da Narsete contro i Goti, parla della decisiva battaglia in cui fu ucciso lo stesso re dei Goti Teia, tenutasi nel 553 presso il fiume Sarno (chiamato, appunto, "Dragone"), ai piedi del monte Lattaro. Dall'ultimo capitolo dell'opera riportiamo la descrizione del Sarno e la posizione dei due eserciti, che sulle cui opposte rive i due eserciti si accamparono:

Κατὰ τούτου δὴ τοῦ Βεβίου τὸν πρόποδα ὕδατος πηγαὶ ποτίμου εἰσί. καὶ ποταμὸς ἁπʼ αὐτῶν πρόεισι Δράκων ὄνομα, ὃς δὴ ἄγχιστά πη τῆς Νουκερίας πόλεως φέρεται. τούτου τοῦ ποταμοῦ ἑκατέρωθεν ἐστρατοπεδεύσαντο ἀμφότεροι τότε. ἔστι δὲ ὁ Δράκων τὸ μὲν ῥεῦμα βραχὺς, οὐ μέντοι ἐσβατὸς οὔτε ἱππεῦσιν οὔτε πεζοῖς, ἐπεὶ ἐν στενῷ ξυνάγων τὸν ῥοῦν τήν τε γῆν ἀποτεμνόμενος ὡς βαθύτατα ἑκατέρωθεν ὥσπερ ἀποκρεμαμένας ποιεῖται τὰς ὄχθας. πότερα δὲ τῆς γῆς ἢ τοῦ ὓδατος φέρεται τὴν αἰτίαν ἡ φύσις οὐκ ἔχω εἰδέναι (bell. Goth. IV 35)(25).

L'identificazione Dracone = Sarno fu accolta nel Seicento dal dotto gesuita Claudio Maltreto, curatore dell'importante editio altera di Procopio (con versione latina, in due volumi, Parigi 1661-1663), il quale sotto Δράκων aggiunse ‡s. Σάρνος. Era stato Camillo Pellegrino, nel suo Apparato alle antichità di Capua o vero discorsi della Campania Felice (Napoli 1651) ad insistere sull'identificazione del Dracon col Sarno.

Il fiume, infatti, si chiamava nel medioevo anche "Dragonteo" o "Dragoncello".

Lo stesso Pellegrino leggeva De fluvio Draconcello il De fluvio Diu Concello che appare al Titolo XLI del Memoriale di Sicardo dell'836, da identificare forse in uno dei rivi del Sarno, quello di Foce. Piú chiaramente nella bolla dell'arcivescovo Alfano del 1066, quella che si riteneva in relazione alla fondazione della diocesi sarnese, il territorio di questa diocesi aveva per limite a Sud-Est il fiume "Draconteo": saliente a mare per flumina Dracontea. "Dragoncello" è il fiume che limitava la ristrutturata diocesi nolana nella bolla di Papa Innocenzo III del 1215: A Cancellata in Troclem, et circa montem Vesevum, usque in insulam Rubellianam, et a Rubelliana per flumen Dragoncellum et per Tarcisam, et per Tecletam usque ad Pratum, et forum de fine; et inde, revolvendo per cilium Montis Virginis, usque ad Cancellum(26).

Del resto anche piú recentemente sono documentati diversi toponimi per il Sarno(27).

Ma nemmeno è da escludere che il nome Dracon in Procopio fosse da riferirsi ad un antico ramo del Sarno, che nei secoli avrebbe modificato il suo percorso soprattutto in relazione alla presenza del vicino vulcano nominato appunto da Procopio come monte dalle cui pendici nasceva il fiume(28).

Inoltre, non si era perso il ricordo del nome Sarnus (ricorrente in Lucano e in Plinio), cosí come di Arnus (in Livio ed ancòra in Plinio); né se ne era perso l'uso.

Nel VII secolo (se è giusta l'attribuzione del secolo), infatti, entrambi i termini, sia pure come Sarnum ed Arnum, appaiono distintamente in un'opera ampiamente diffusa nel medioevo, un catalogo onomastico in cinque libri corredato forse da una carta, che è conosciuto come la Cosmografia del Geografo Ravennate; non però a proposito dei fiumi italiani, poiché manca la parte del IV libro dove avrebbero potuto essere i due fiumi, ma indirettamente, inseriti nelle città(29).

In ogni caso, pur ammettendo la diffusione di diversi toponimi per il Sarno, la scarsa diffusione delle opere di Plinio e qualsiasi altra causa che impedisse una facile identificazione del Sarnus, è sorprendente che si sia verificato l'equivoco, data la rilevante personalità dello storico spagnolo.

Certo, c'è chi, in qualche misura esagerando, non si meraviglia della identificazione Sarno-Arno, che, "assai grossolana" anche per la "impropria" citazione, "forse non travalica il livello culturale di Orosio"(30). Non pochi studiosi, poi, hanno piú generalmente espresso i loro dubbi sul valore storico della scelta e sulla veridicità storica dei fatti da lui riportati sulla base delle sue fonti.

Ma il pur colto Orosio era un po' al di sopra delle 'piccole' questioni che non rientravano nei suoi interessi. Giudicato vigil ingenio, promptus eloquio, fragrans studio da S. Agostino(31), che lo spinse a narrare i fatti dell'umanità quasi per integrare, come documentazione storica, la teologia della storia da lui trattata nel del De civitate Dei, Orosio compose le Storie, a cominciare dalla creazione del mondo e fino al 417 d. C., dimostrando che non erano da attribuire al cristianesimo calamità e guerre, le quali sempre hanno accompagnato la vita dell'uomo, anche prima della sua diffusione, ed offrí una visione degli eventi universalistica, provvidenziale e finalizzata, nella ottimistica prospettiva dell'impero universale e dei tempi della pace, senza preoccuparsi troppo, per questo, di verificare i fatti, ma accontentandosi di riportarli secondo le sue fonti, tra le quali è presente certamente Tito Livio.

Per questo motivo la sua visione della storia ebbe tanta fortuna e tanti imitatori per tutto il medioevo, e oltre.

E probabilmente con essa si diffuse anche l'equivoco Sarnus = Arnus.

 

* * *

 

Orosio fu certamente noto, tra l'altro, nella Pisa dei secoli XI e XII, come vuole G. Scalia(32), che riporta esempi di Sarnus = Arnus, nella convinzione che sia l'errore orosiano all'origine dello scambio.

Gli esempi sono molteplici. Alcuni sono tratti dal Liber Maiorichinus, un poema del 1115-1120 sulla vittoriosa spedizione degli anni 1113-15 contro le musulmane isole Baleari, e probabilmente costituiscono "le piú antiche attestazioni medievali dell'idronimo, con riferimento all'Arno, in fonte letteraria"(33): l'Arno è chiamato Sarnus al v. 138 ed al v. 1165, i Pisani sono chiamati Sarnigeni al v. 472 e Sarnicole al v. 1468. Un altro esempio è tratto dai coevi Gesta triumphalia, una cronica pisana relativa agli anni 1098-1119, dove l'Arno è nominato una sola volta come Sarnus: Quapropter Pisanus exercitus in trecentis navibus ad Christianos liberandos in die S. Sixti de Sarni faucibus exivit...(34). Altri esempi sono tratti da vari documenti, tra cui un atto del 27 gennaio 1093, una cartula donationis di un terreno confinante "in fluvium Sarni", "la piú antica testimonianza a me nota dell'idronimo nell'aberrante accezione"(35).

Lo stesso Scalia riporta anche esempi relativi all'area della Firenze della metà del Duecento, tratti da due importanti testi di storiografia, l'anonima Chronica de origine civitatis (in due redazioni latine) e i Gesta Florentinorum del giudice Sanzanome, che in qualche misura hanno lasciato traccia anche nell'opera di Dante, al quale quindi erano noti. Nella Chronica si legge: 1) usque in colles Sarni seu Arni; 2) ex alia parte Sarni; 3) existentem juxta Sarnum; 4) aqua fluminis Sarni. Nei Gesta inoltre si legge: 1) in villa Camarcia prope flumen Sarni; 2) Lucenses vero venientes iuxta flumen Sarni castra locaverunt; 3) ecce Pisani venerunt Sarno flumine in medio fluente. Nelle due opere l'Arno è chiamato sempre Sarnus, tranne che nel primo esempio dove è riportato anche Arnus(36). Ancòra altri esempi, databili dal 1312 al 1318, appaiono in un diario latino del notaio di San Miniato ser Giovanni di Lemno da Camugnori e dimostrano l'uso errato dell'idronimo, accanto a quello corretto, nel tempo in cui Sarnus appare nelle opere di Dante(37).

Particolarmente gli esempi fiorentini dovettero avere la loro importanza nel determinare l'identico uso errato del termine nelle opere dantesche. Ma piú probabilmente fu Orosio il punto di riferimento culturale anche per Dante.

Orosio, infatti, fu noto ed anzi piacque tanto al poeta fiorentino, che ammirava anche il latino dello scrittore cristiano(38) e prospettava e invocava una interpretazione della storia non dissimile dalla sua.

Dante mostra di avere accolto la concezione geografica di Orosio e, soprattutto, di essersi basato molto spesso proprio sulle Storie nel riportare episodi, date e personaggi storici; ciò non solo quando viene espressamente citato lo storico cristiano, ma in qualche caso anche quando è richiamata direttamente l'indiscussa autorità di Livio, lo storico "che non erra", come leggiamo in Inf. XXVIII 10-12: "[...] per la lunga guerra, / che dell'anella fe' si alte spoglie, / come Livio scrive, che non erra"(39). "Fu l'Ormista, in realtà, il suo storico"(40).

È molto probabile, quindi, che principalmente ad Orosio, come prima si diceva, sia dovuta la identificazione Sarnus = Arnus ricorrente, come ora vedremo, nelle opere latine di Dante, e solo in queste, a cominciare dal suo fondamentale trattato, composto, pare, tra il 1304 ed il 1307, che aprí prepotentemente la questione sul volgare italiano.

In De Vulgari Eloquentia I 6, infatti, il poeta fiorentino, "poiché l'umana attività con moltissimi e differentissimi idiomi si esercita", intendendo "mettersi sulle tracce di quell'idioma, di cui si crede si sia servito l'uomo che fu senza madre, che fu senza latte, che non vide l'età di pupillo né maturarsi l'adolescenza [sc. Adamo]" e sapendo che "chiunque ha un cosí ripugnante modo di ragionare da credere il luogo del suo nascimento il piú delizioso sotto il sole, costui apprezza pure sopra tutti il proprio volgare, cioè la sua lingua materna, e per conseguenza crede che proprio essa sia stata la lingua ch'ebbe Adamo", si propone di essere obiettivo, nonostante il suo amore per Firenze e nonostante abbia bevuto al 'Sarno' quando non ancòra aveva i denti (I 6,3 quanquam Sarnum biberimus ante dentes).

Successivamente Dante usa Sarnus nelle Epistole.

Con l'Epistola IV, scritta forse intorno all'anno 1308, dopo il soggiorno in Lunigiana del 1306, Dante presenta - a mo' delle parti in prosa che introducono le rime nella Vita Nuova - la canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia (Rime CXVI), probabilmente a Moroello Malaspina, marchese di quella regione; vi descrive l'incontro, avvenuto mentre "incauto" si trova presso le correnti del 'Sarno' (IV 2 iuxta Sarni fluenta), con una donna di cui Amore lo rende schiavo uccidendo in lui il proposito di meditare e di indagare su le cose celesti e terrestri.

L'appassionata Epistola VI è dall'"esule senza colpa" inviata "agli scellerati Fiorentini rimasti in città", i quali non avendo ubbidito all'assente imperatore Arrigo e avendo trasgredito a tutte le leggi, umane e divine, e non rendendosi conto che l'osservanza di esse è segno non di servitú ma della piú alta forma di libertà, dovranno aspettarsi la "giusta punizione". Essa è scritta il 31 marzo 1311 "in Toscana, alle sorgenti del 'Sarno'" (VI 6,27 in finibus Tuscie sub fontem Sarni).

L'ancor piú accesa Epistola VII è indirizzata dal devotissimo e sempre "esule senza colpa" all'imperatore Arrigo dimentico della Toscana, ove, pertanto, il male prospera: se è vero che per estirpar le piante non basta tagliarne i rami finché le radici sono vive, allora bisogna tagliare alla base la "peste rovinosa" che è causa del marciume, cioè Firenze, le cui "fauci contaminano le correnti del 'Sarno'" (VII 7,23 Sarni fluenta torrentis adhuc rictus eius inficiunt).

La stessa epistola è scritta anch'essa nel 1311 (il 17 aprile), "in Toscana, alle sorgenti del 'Sarno'" (VII 8,31 in Tuscia sub fonte Sarni).

Sarnus riappare nelle Egloghe, ossia nella corrispondenza in esametri latini tra Dante e il grammatico bolognese Giovanni del Virgilio.

Quest'ultimo nell'Egl. I, inviata nel 1319, lo ha esortato a scrivere un poema in latino su temi di storia contemporanea per ricevere, in tal modo, anche l'apprezzamento dei dotti.

Da Ravenna il Poeta, distraendosi dalla composizione del Paradiso, risponde con l'Egl. II (la prima di Dante), un carme bucolico di 68 vv. nel quale afferma, nella parte del pastore Titiro che risponde a Melibeo (Dino Perini) sulla richiesta di Mopso (Giovanni del Virgilio), che preferirà cingere la corona di alloro sulle rive del nativo 'Sarno' (patrio... Sarno) quando sarà terminata la terza cantica della Commedia:

Quantos balatus colles et prata sonabunt, / si viridante coma fidibus peana ciebo! / Sed timeam saltus et rura ignara deorum. / Nonne triuphales melius pexare capillos / et patrio, redeam si quando, abscondere canos / fronde sub inserta solitum flavescere Sarno? (Egl. II 39-44)(41)

La risposta di Giovanni del Virgilio è 'per le rime'. Nell'Egloga III, propostosi di usare anch'egli la poesia bucolica, incoraggia Titiro, "giustamente indignato" per i pascoli del 'Sarno' (pascua Sarni) strappati ai suoi greggi, con l'augurio di ritornare un giorno presso il suo "fonte" e con l'invito a voler raggiungere intanto, a Bologna, il suo Mopso, che, se disprezzato, potrebbe dissetarsi nel Musone, il fiume di Padova, rivolgendosi cosí ad Albertino Mussato (88 Me contempne: sitim frigio Musone levabo):

Eheu pulvereo quod stes in tegmine scabro / et merito indignans singultes pascua Sarni / rapta tuis gregibus, ingrate dedecus urbi, / humectare genas lacrimarum flumine Mopso / parce tuo, nec te crucia crudelis et illum, / cuius amor tantum, tantum complectitur, inquam, / iam te, blande senex, quanto circunligat ulmum / proceram vitis per centum vincula nexu. / O si quando sacros iterum flavescere canos / fonte tuo videas et ab ipsa Phillide pexos, / quam visando tuas tegetes miraberis uvas! (Egl. III 36-46)

Come si può vedere, anche Giovanni del Virgilio, studioso di autori latini e soprattutto, a quanto pare, di quel Virgilio da cui avrebbe preso il soprannome e che aveva riportato nella sua Eneide il toponimo Sarnus, ha accolto l'equivoco dantesco Sarnus = "Arno", tant'è che al v. 229 della sua Egloga del 1325 diretta al Mussato, l'ormai deceduto Dante, con cui egli ha avuto la nota corrispondenza poetica, è definito Sarnius ("sarnio", "sarnese").

Va qui ricordato, certo, che c'è chi ha ritenuto falsa la corrispondenza poetica fra Dante e Giovanni del Virgilio, cosí come l'Egloga da quest'ultimo diretta al Mussato(42). Ma va da sé che, se pure fosse vera l'ipotesi del falso e fossero, quindi, privi di valore gli esempi di Sarnus contenuti nella corrispondenza stessa (cioè quelli tratti dalle Egloghe di Dante e di Giovanni del Virgilio), rimarrebbero comunque incontestabili quelli tratti dal De Vulgari Eloquentia e dalle Epistole.

Rimangono, quindi, il forte interrogativo e, con esso, il problema perché o come Dante possa essere caduto nell'errore.

A dire il vero non sono mancati i tentativi di giustificare l'errore. Tale fu la motivazione addotta da P. Toynbee, che cercò di far rientrare gli episodi danteschi in una piú comune abitudine, asserendo sotto la voce Sarnus del suo dizionario dantesco che "It appears, however, that medieval writers not uncommonly used the name Sarnus to represent the Arno in Latin"(43); tale quella addotta sotto la voce "Sarno" dell'Enciclopedia Dantesca(44) da G. Brugnoli, che, ritenendo Dante "il primo a condurre questa operazione" (p. 37) e, d'altra parte, "assai improbabile che non possedesse una nozione cosí elementare"(45) (ibid.), ha offerto una spiegazione ideologica dello equivoco, interpretato come una specie di damnatio del nome del "fiero" Arno da parte del poeta(46). Entrambe le motivazioni, tuttavia, non appaiono del tutto convincenti, la prima perché troppo generica, la seconda perché basata su premesse errate e perché, pur non priva, a prima vista, di una sua suggestione e pur apprezzabile, in qualche modo, per il tentativo di nobilitare l'errore dantesco, non è certamente verisimile. Di qui le precisazioni di G. Scalia, che, nel citato articolo ""Arnus" - "Sarnus", Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano", riporta esempi di Sarnus = Arnus precedenti a Dante, come già sappiamo, e allarga il discorso con acribia, ma in qualche caso forse con eccessiva sottigliezza, ritenendo e intendendo mostrare "ogni ricorso a motivazioni semantico-psicologiche, come quello tentato dal Brugnoli, [...] del tutto fuori luogo" (p. 20).

Ma anche a voler rimanere sul piano della motivazione ideologica o psicologica del Brugnoli, Dante non è poeta che preferisca chiudere gli occhi o gli orecchi di fronte alla realtà, per quanto brutta o vergognosa essa possa essere; è, invece, il poeta che preferisce le "chiare parole" e il "preciso latin"(47). Si tratta quindi di un errore, e le motivazioni vanno ricercate nell'autorità di Orosio, che aveva travisato il testo virgiliano, nella confusione del testo di Lucano, che elencava senza ordine vari fiumi tralasciando l'Arno e inserendo persino la Magra (perché allora non pensare che il "patrio" Arno si fosse chiamato un tempo Sarno?), nella non diretta conoscenza di Livio, nella difficoltà di approccio alla vasta opera di Plinio, nella scarse conoscenze geografiche del tempo, nella scarsa conoscenza dell'Italia meridionale in genere, forse anche nel voler trovare citato a tutti i costi presso gli auctores il nome dei luoghi cari benché "orribili".

La prova che non fosse difficile cadere nell'errore ci è fornita non solo dagli esempi precedenti a Dante, ma anche dal fatto che altri, e non solo Giovanni del Virgilio, vi incorrano contemporaneamente o in séguito, per diversi motivi e con diverse modalità.

Infatti anche Giovanni Villani, il cronista fiorentino e probabile amico di Dante, nella sua Nuova Cronica, senza manifestare alcun dubbio, crede che il Sarnus virgiliano sia l'Arno, anche se nel suo volgare non chiama col nome del fiume campàno il "fiume d'Arno".

Nel I libro (scritto forse nei primissimi anni del sec. XIV e quindi, se è vera questa datazione, prima che lo stesso Dante cadesse nell'equivoco), nel descrivere il percorso di questo fiume nell'àmbito del piú generale 'racconto' del "sito della provincia di Toscana", egli accetta l'identificazione e riporta il passo virgiliano e la testimonianza di Orosio:

E del detto fiume d'Arno le antiche storie fanno menzione: Virgilio nel libro VII dell'Eneide parlando della gente che fu in aiuto al re Turno incontra Enea di Troia con questi versi:

Sarrastes populos, et quae rigat aequora Sarnus:

e Paolo Orosio raccontando in sue storie del fiume d'Arno, disse, che quando Annibale di Cartagine tornando di Spagna in Italia passò le montagne d'Appennino, vegnendo sopra i Romani, ove si combatteo in sul lago di Perugia col valente consolo Flaminio da cui fu sconfitto, in quel luogo dice, che passando Annibale l'Alpi Appennine, per la grande freddura che v'ebbe, discendendo poi in su i paduli del fiume d'Arno sí perdé tutti gli suoi leofanti, che non ne gli rimase se non uno solo, e la maggiore parte de' suoi cavalli e bestie vi morirono; ed egli medesimo per la detta cagione vi perdé uno de' suoi occhi del capo. [...] Bene racconta Tito Livio quasi per simili parole, dicendo, che 'l passo, e dove s'accampò Annibale, fu tra le città di Fiesole e quella d'Arezzo (Cron. I 43).

In questo caso, appare evidente che il Villani ha accolto l'identificazione e pertanto non è posssibile ritenere, col Brugnoli(48), che il cronista "si limita [...] alla citazione del passo di Orosio (che completa opportunamente con la fonte liviana) senza prendere posizione". Va ancòra evidenziato il confronto fatto con Livio: c'era allora un Livio con Sarnus invece di Arnus?

Per di piú il Villani identifica con l'Arno non solo il Sarnus di Virgilio, ma anche quello di Lucano. Assume per questo particolare rilevanza, nello stesso libro I, il precedente cap. XLI, in cui si constata come il v. II 424 di Lucano fosse certamente conosciuto, se mai fosse rimasto qualche dubbio, e come in esso Sarnus fosse interpretato, appunto, come "Arno":

La città di Firenze in quello tempo era camera d'imperio, e come figliuola e fattura di Roma in tutte le cose, e da' Romani abitata, e però de' propri fatti di Firenze a quelli tempi non troviamo cronica né altre storie che ne facciano grande memoria. E di ciò non è da meravigliare, perocch'e' Fiorentini erano sudditi e una co' Romani, e per Romani si trattavano per lo universo mondo, e come i Romani andavano ne' loro eserciti e nelle battaglie. E troviamo nelle storie di Giulio Cesare, nel secondo libro di Lucano, quando Cesare assediò Pompeo nella città di Brandizio in Puglia, uno de' baroni e signori della città di Firenze ch'avea nome Lucere, era in compagnia di Cesare, e fue alla battaglia delle navi alla bocca del porto di Brandizio, valente uomo d'arme e virtudioso; e molti altri Fiorentini furono in quell'esercito e battaglie con Cesare e di sua parte; perocché quando fue discordia da Giulio Cesare a Pompeo e del senato di Roma, quelli della città di Firenze e d'intorno al fiume d'Arno tennero la parte di Cesare. E di ciò fa menzione Lucano nel detto libro ove dice in versi: "Vulturnusque celer, nocturnaeque editor aurae / Sarnus, et umbrosae Lyris per regna Maricae". E cosí dimorarono i Fiorentini mentre ch'e' Romani ebbeno stato e signoria.

In quel "dei propri fatti di Firenze a quelli tempi non troviamo cronica né altre storie che ne facciano grande memoria [...] perocch'e' Fiorentini erano sudditi e una co' Romani, e per Romani si trattavano per lo universo mondo" possiamo leggere anche la spiegazione psicologica dell'abbaglio. La successiva citazione lucanea, addotta come prova non certamente opportuna (tanto quanto quella virgiliana, e tale da far anche pensare alla citazione di seconda mano), è quasi prova invece del desiderio di voler forzare il silenzio su Firenze e sull'Arno, che pure dovevano avere avuto una loro storia come luoghi legati ad importanti avvenimenti: quel Sarnus nominato dal grande Virgilio e da Lucano, che tanti luoghi citavano nelle loro opere, non poteva essere se non il caro e importante Arno. E poi, come si sa, c'era stata la nota testimonianza di Orosio!

E tuttavia, ripetiamo, Villani identifica con l'Arno il Sarnus di Virgilio e di Lucano, ma non chiama "Sarno" il suo "fiume d'Arno".

C'è chi invece, per averla usata ripetutamente, senza equivoci, ma con stile, sembra far ritenere che l'identità Sarno-Arno, almeno per qualche tempo, diventi quasi spontanea a certi livelli e sia accolta comunemente in segno di eleganza anche in volgare. E del resto se ne ha una prova nella Cronica pisana del cod. 54 dell'Archivio di Stato di Lucca, f. 45v, databile nella prima metà inoltrata del secolo XIV, dove si legge: "l'uno de lati in del fiume di Sarno volgalme[n]te ditto Arno"(49).

È appunto il caso del Boccaccio, che, fra il 1341 e il 1342, al suo ritorno a Firenze da Napoli (quindi da luoghi dove il Sarno vero non doveva essere ignoto), scrive l'Ameto o Commedia delle ninfe fiorentine, un'opera idillica e fantastica ed insieme allegorica, resa straordinariamente interessante anche dall'uso di un volgare ricercato e prezioso nonché singolare (per la presenza di qualche termine familiare(50), o fin troppo realistico(51), o di qualche immagine ispirata al mondo contadino(52), accanto a frequentissimi e raffinatissimi latinismi(53)), nella quale si avverte moltissimo l'autorità di autori latini quali Ovidio e Virgilio o cristiani quale lo stesso Paolo Orosio(54) o volgari quale, soprattutto, Dante(55).

In quest'opera il certaldese, volendo significare l'incivilimento dell'umanità educata alle sette virtú grazie all'amore, narra la vicenda del rozzo pastore Ameto (l'umanità, appunto), il quale, avendo incontrato, in una selva dell'Etruria situata alle pendici del monte Corice presso le rive dell'Arno, delle ninfe di Venere mentre si bagnano, s'innamora di una di esse, Lia (la fede), ed in séguito la cerca finché non la ritrova durante le feste dedicate alla dea, "luce del cielo unica e trina, / principio e fine di ciascuna cosa" (p. 1046), presso un solenne tempio di quei luoghi: qui ascolta appassionatamente, nell'ordine da lui stesso stabilito, le ninfe (le virtú) parlare, secondo la proposta di Lia, dei loro amori, e finalmente, dopo il racconto di Lia, con un lavacro è purificato.

Nell'Ameto l'Arno è chiamato sempre "Sarno" (l'equivoco entra cosí nel volgare letterario). Allo stesso modo "Sarnia" è la ninfa che abita nei vicini luoghi del 'Sarno' detti "villa sarnina" (sc. villa Arnina) e che accoglie e sposa il tebano Achimenide, già al séguito di Ulisse e poi di Enea, dopo i tristi casi di Tebe, e desideroso di fondare una nuova Tebe; "Sarnia" è uno dei nomi proposti per la nuova città formata da questo nucleo originario, la quale però sarà chiamata Fiorenza non senza provocare la violenta ira del fiume offeso.

Dagli esempi dell'Ameto chiaramente emerge come il Boccaccio sia stato coinvolto nell'errore e nell'equivoco Sarno = Arno. Ma, successivamente, egli se ne accorge. Nella glossa al già riportato v. 44 dell'Egl. II di Dante, che si è ritenuto appartenga agli anni 1345-1348 corrispondenti al suo soggiorno romagnolo, l'errore (che, si ricorda, era stato anche il suo) è annotato e indicato, sia pure con il tentativo di giustificazione. Egli, infatti, avanza dapprima l'ipotesi della aggiunta della s iniziale per "ragione di metro" e con "autorità poetica" (e però la ratio metri varrebbe solo per il luogo cui il glossatore si riferisce, non avrebbe alcun significato per tutti gli altri esempi danteschi); quindi ammette l'errore di Dante, il quale avrebbe creduto falsamente che Sarnus di Aen. VII 738 fosse l'Arno, e non lascia spazio ad ogni possibile, ulteriore confusione:

Hic Sarnum pro Arno fluvio Tusciae inteligit, seu quod ratione metri auctoritate poetica addiderit in principio illam s, seu quod ita condam illum vocatum crediderit, eo quod Virgilius dicit: "et quae rigat aequora Sarnus", quasi de isto Arno loquatur, quod quidem falsum est: loquitur enim Virgilius de Sarno fluvio Campaniae prope Neapolim ut satis loca ibidem a Virgilio nominata demonstrant.

Dopo questa glossa cosí chiara, il Boccaccio può esprimersi con maggiore sinteticità a proposito del Sarni al citato v. 37 dell' Egl. III di Giovanni del Virgilio: Idest Florentiae, ratione cuiusdam fluvii florentini sic nominati. Ed ancòra, con riferimento al Sarnius del v. 229 dell'Egloga di Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato: Scilicet Dantes, a Sarno fluvio. Tanto l'errore è ormai chiarito.

È pur vero, va detto, che è stata avanzata non senza motivazioni l'ipotesi di una retrodatazione della trascrizione da parte del Boccaccio delle Eglogae dantesche e delvirgiliane al 1339 circa, quindi a prima della composizione dell'Ameto; nel contempo, le glosse non sarebbero tutte della stessa mano e queste stesse ora riportate non apparterrebbero al certaldese, bensí ad altro postillatore conoscitore dei classici latini(56). Ma, se pure le glosse non fossero di mano del Boccaccio, oppure non coincidessero con il suo pensiero e con il suo stile, non v'è alcun dubbio che nella sua maturità (particolarmente nell'intensissimo periodo di studio e di attività letteraria a Certaldo, dal 1362 alla morte avvenuta nel 1375) l'identità Sarnus = Arnus è indicata come errore.

Infatti, nel De montibus, silvis, fontibus, etc., l'importante repertorio di erudizione geografica composto in latino per i lettori di testi poetici ed elaborato con frequenti rimaneggiamenti dal 1355 al 1374, specificamente nella parte dedicata ai fiumi (De fluminibus), egli innanzittutto inserisce due voci distinte, Arnus e Sarnus, cui dedica relativamente ampio spazio in confronto ad altre importanti voci.

Sotto la prima di esse, dopo una interessante descrizione del fiume toscano, riporta anche il noto episodio di Annibale (finalmente senza il riferimento a Virgilio):

Arnus Tusciae fluvius est ex Appennino effluens mergitur in Tyrrhenum, [...] qui etsi navigabilis non sit, nec piscium foecunditate famosus, si quis recitare velit plurimum clarissimorum facinorum facile efficiet insignis. Ex quibus ut aliis praestet locum unum recitasse satis est. Is quippe certantibus de orbis imperio Romanis atque Carthaginensibus pro Romanis partibus vires posuit suas. Nam cum iam Alpes ex Hispania veniens Hannibal Poenus superasset, et Apennino transcenso ex Gallia venisset in Thusciam, a Fesulis iturus Aretium quasi ex composito totus effluens in tantum ripas excessit, ut Poenum maxima exercitus parte privaret, eumque ducem cogeret mediis in undis elephanto superstiti insidere, quem adeo nocturnis ac palustribus auris affecit, ut oculo caperetur uno, et ob hoc arbitror a veteri fama in hodiernum usque servatum, ut ob semicaecatum hostem Florentini, quorum forsan in agro contigit, cognominati sunt caeci, et si tantumdem fluvius egisset alter, aut caecus pugnasset Poenus, aut quietam Italiam omisisset (flum., s. v. "Arnus").

Sotto la voce Sarnus, oltre a descrivere il fiume campàno e a caratterizzarlo con "paludi estesissime", con abbondanti e moleste nebbie e con la capacità di pietrificare corpi solidi con le sue acque (tanto che con le sue pietre si fabbricavano case e da Nerone sarebbe stato costruito persino un acquedotto fino a Miseno), il Boccaccio fa una importante attestazione asserendo che "alcuni" (ma chi? certamente Orosio e Dante, certamente Giovanni del Virgilio e Giovanni Villani che riporta l'episodio di Annibale, certamente egli stesso, ma anche altri?) "troppo poco attenti pensarono che questo Sarno fosse l'Arno fiume di Firenze":

Sarnus flumen est Campaniae ex Apaenino in Capream insulam tendente pluribus in locis vasto saxei montis murmure fundit adeo abunde ut non ante exierit quam amplissimas paludes fecerit incolis nebulis, quibus semper abundat, infestas nimium, ex quibus tandem in alveum coactus. Pompeianum sub Vesubio monte irrigat agrum, et pauco contentus cursu, nec alicuius alterius comitatus undis, satis tamen aquarum copiosus, haud longe a Stabia Tyrrhenum ingredit mare, hic apud Sarnum oppidum, quod fontibus eius imminet, ligneos fustes paleas frondes, et quodcumque in eum cadat lapideo paucis in diebus cortice tegit, et assidue agens materiam praebet incolis ex qua domos conficiant. Ex hoc Neronis Caesaris iussu paulo altius a radice montis inchoatus pilis fornicibusque latere cocto factis superaedificatus aquae ductus est et ad Misenum usquam protractus est habens ut arbitror .XIV.M. pas. longitudinis. Ibi vero quod Baianus sinus ob sulphur potabilium aquarum penuria patiat in piscinam vastissimae magnitudinis fundebat, et defectum totius orae illius sua copia maximo incolarum commodo staurabat. Hunc Sarnum aliqui minus advertentes Arnum Florentiae fluvium putavere (flum., s. v. "Sarnus").

Il Boccaccio nomina il Sarno e la sua caratteristica di pietrificare anche nelle Esposizioni sopra la Comedía.

Dante in Inf. XIV 76-84 parla del "picciol fiumicello", una diramazione del Flegetonte, come è spesso inteso, che esce con un raccapricciante colore rosso dalla selva dei suicidi per attraversare il sabbione infuocato (dove sono puniti i violenti contro Dio, la natura e l'arte) e permettere l'attraversamento sui suoi duri margini anche ai due poeti: "Tacendo divenimmo là 've spiccia / fuor de la selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia. // Quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giú sen giva quello. // Lo fondo suo e ambo le pendici / fatt'era 'n pietra, e' margini da lato; / per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici"(57). Il Boccaccio, nella lezione LIV, relativa alla interpretazione letterale del canto XIV, cosí legge e commenta i vv. 83-84:

Fatte eran pietra, e i margini d'allato, come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, siccome qui fra noi l'Elsa, e presso di Napoli Sarno; Perch'io m'accorsi che 'l passo era lici, dove le pendici erano cosí divenute di pietra.

Egli offre cosí una lettura ed una interpretazione ben precisa, qual è quella della pietrificazione dei margini del fiume a causa delle incrostazioni depositate (lettura e interpretazione vicine, nel tempo, a Dante, ma che il Barbi(58) e i piú che lo seguirono non accetteranno, in considerazione anche di Inf. XV 12 "qual che si fosse, lo maestro félli", dove si parla di un "maestro", di un costruttore inteso come Dio, nonostante l'indeterminato "qual che si fosse"). E dimostra tale sua interpretazione ricorrendo proprio all'esempio dell'Elsa e del campàno Sarno che egli ben conosce.

Nel periodo di studio, revisione, rielaborazione, copia di manoscritti, segno anche dei tempi nuovi che approderanno alla nuova fede, alla nuova coerenza negli studi, nonché alla ricerca filologica che caratterizzeranno l'umanesimo, il Boccaccio, accorgendosi finalmente del secolare equivoco, ridà cosí al Sarno e all'Arno le loro acque, e le loro caratteristiche.

Già Benvenuto da Imola, ascoltatore delle lezioni del Boccaccio, nel suo Comentum alla Commedia di Dante, risalente nella sua forma definitiva agli anni 1379-1380, si fa portavoce delle definite certezze sui due fiumi. Infatti, a proposito della particolarità di pietrificare dell'"acqua d'Elsa" di Purg. XXXIII 67, sulle orme del Boccaccio, di cui tiene presenti anche le voci del De montibus..., egli riporta l'esempio del Sarno ed approfitta per sfatare ancòra una volta l'errore con l'indicazione, per giunta, del nome di Orosio:

in Italia in multis locis sunt aquae quae vertuntur in lapides sicut aqua fluminis Sarni [...] Est autem hic fluvius in Apulia, et non est Arnus Tusciae, sicut quidam false scripserunt, sicut Horosius(59).

Gli umanisti potranno poi, proseguendo nella direzione della scientificità applicata anche allo studio diacronico del latino, confermare l'errore. E tuttavia qualche traccia di esso si rinverrà agli inizi del Quattrocento. Cosí infatti si legge in una interpolazione alla Storia fiorentina di Ricordano Malispini:

[I Romani] vennono nel piano dove è oggi Firenze in sulla ripa d'Arno che in quello tempo si chiamava Sarno, poi si dirivò il nome e fu chiamato Arno, e quivi in sulla riva fondarono cierte casette e capanne intorno, dove oggi si chiama Ponte Vecchio e dove oggi si chiama Vachereccia e Santo Michele in Orto, e quella borgata si chiamava Villa Sarnina, poi divolgata per ch'era in sul Arno, che poi si chiamò Villa Arnina(60).

 

 

Probabilmente con la pubblicazione, a partire dal 1469, e quindi la maggiore diffusione dell'opera di Plinio il Vecchio (un grosso successo editoriale, come oggi si direbbe, visto che fino a tutto il Cinquecento si ebbero 15 edizioni), che citava il Sarno e l'Arno come Sarnus ed Arnus, la questione può ritenersi chiusa, dopo un equivoco durato circa mille anni. Grazie a questa svanisce ogni residuo dubbio e, sia pure a distanza di secoli, l'uso di entrambi gli idronimi è finalmente corretto e appropriato, nella produzione letteraria, sicché i due fiumi riacquistano la loro completa identità.

Sarnus ridiventa, cosí, il fiume campàno nelle opere di Giovanni Pontano: sia nei versi, in cui il poeta ripropose ritmi e musicalità della grande poesia latina con una dolcezza tutta nuova ed una straordinaria semplicità(61), sia nella prosa del De bello Neapolitano, in cui egli narrò con eleganza i fatti della guerra tra Ferdinando I d'Aragona e Giovanni d'Angiò(62).

Riconosciamo il campàno Sarnus anche nelle opere di Jacopo Sannazaro, che, sulle orme del Pontano, ha lasciato una raffinatissima produzione in latino, tra cui il breve poemetto Salices, "maturato presso le onde del fiume" (4 flumineas properatum... ad undas) per cantare la trasformazione in salici delle ninfe delle rive del Sarno lanciatesi nelle sue acque per sfuggire all'assalto dei Satiri e di altre divinità agresti(63). E, tra la produzione in volgare del poeta napoletano, la fortunatissima Arcadia pur accenna all'antica Pompei "irrigata da le onde del freddissimo Sarno" (XII prosa).

Anche il termine volgare "Sarno", quindi, dopo la parentesi del Boccaccio nell'Ameto, riacquista del tutto nella nostra letteratura il suo vero e solo significato di fiume della Campania. Naturalmente, pure il termine "Arno" da solo può definitivamente significare il fiume della Toscana.

Se pure lo stesso Dante, padre della nostra lingua letteraria e primo studioso del volgare, aveva affermato, errando, di aver bevuto al suo Sarnus prima di mettere i denti, e tuttavia non aveva suscitato scandalo tra i dotti del tempo, ormai si sarebbe certamente sorriso se per caso si fosse sentito qualche altro protagonista della nostra letteratura e studioso della nostra lingua manifestare l'intenzione di "risciacquare i suoi panni in Sarno", anziché "in Arno"(64).

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

1 Si consideri, tuttavia, che quidam... nominatas apparve nell'edizione del Daniel (Parigi 1600).

2 Anche in questo caso tutta la parte Conon... condiderunt fu edita per la prima volta dal Daniel; e tuttavia questi leggeva Sarno invece di Sarro, che con maggiore evidenza si mostra legato a Sarrastros, o Sarrastes come lo stesso Daniel leggeva, o Sarrasteis come invece leggeva il Cluverius (Italia antiqua, IV).

3 Cfr. la nota di R. Gelsomino a Vib. Seq., flum. 138 (Lipsiae 1967). In relazione allo stesso passo, cfr. anche l'edizione di C. Bursian (Turici 1867).

4 "Subito dopo [Napoli] c'è il castello Eracleo con un promontorio che si protende nel mare, su cui spira meravigliosamente il libeccio, tanto da rendere salutare il centro abitato. Sia questo sia Pompei che vien dopo, presso la quale scorre il fiume Sarno, li possedettero gli Osci, poi i Tirreni e i Pelasgi, quindi i Sanniti, che pure furono cacciati da quei luoghi. Pompei, presso il fiume Sarno che accetta e spedisce merci, è il porto di Nola, di Nocera e di Acerra, centro omonimo di quello presso Cremona. Sovrasta tutti questi luoghi il monte Vesuvio".

5 Strabone, infatti, non fa il nome di Stabiae ed anzi afferma che "contigua a Pompei è Sorrento" (Geogr. V 247 συνεχὲς δέ ἐστι τῇ Πομπηίᾳ τὸ Συρρεντόν).

6 Giova tener presente che in Geogr. V 242 Strabone parla della Campania e dei popoli che l'hanno abitata ed afferma che secondo Antioco di Siracusa (cfr. fr. 7 Jacoby) essa era abitata dagli Opici, chiamati anche Ausoni, mentre secondo Polibio (cfr. XXXIV 11) essa era abitata sia dagli Opici sia dagli Ausoni, intesi come due stirpi diverse; secondo altri non nominati sarebbe stata abitata prima dagli Opici e dagli Ausoni, poi da un popolo degli Oschi, il quale sarebbe stato sconfitto dai Cumani, a loro volta sconfitti dai Tirreni, a loro volta cacciati dai Sanniti, a loro volta cacciati dai Romani. Se si volesse mettere d'accordo l'ultima ipotesi riferita da Strabone con quanto da lui affermato in Geogr. V 247, si potrebbe desumere che i Pelasgi occuparono la zona del Sarno avendone cacciato i Tirreni che pur continuavano a tenere il resto della Campania, finché entrambi i popoli non furono cacciati dai Sanniti.

7 Cfr. Th. Mommsen, Die Unteritalischen Dialekte, Lipsia 1850, p. 293; R. v. Planta, Grammatik der oskisch-umbrischen Dialekte, II, Strasburgo 1897, p. 31; E. Vetter, Handbuch der italischen Dialekte, Heidelberg 1953, Nr. 200 A 9b.

8 Cfr. Mau, 68. 84; R. v. Planta, Op. cit., II, p. 31, 2. Cfr. anche E. Vetter, Op. cit., Nr. 23. 24.

9 Cfr. Serv. auct., ad Aen. VII 738.

10 Cfr. Vib. Seq., flum. 138.

11 Per Sarinu, però, fu avanzata, tra le altre, anche l'ipotesi di un Publio Sarino possessore di una taverna. Veru Sarinu è stata intesa, poi, come la Porta Saliniensis, che guarderebbe sulla paludosa zona pompeiana presso le Salinae Herculeae (cfr. Columella, de re rust., X 125), che si sarebbero trovate di fronte all'isolotto di Rovigliano (Petra Herculis), cioè alla foce del Sarno: solo indiretto, in tal caso, sarebbe il legame col fiume e casuale la somiglianza coll'idronimo.

12 Cfr. A. I. Pfiffig, Die Etruskische Sprache, Graz 1969, p. 168.

13 Aura è stata intesa quasi sempre come "nebbia"; in qualche caso, però, è stato proposto il significato di "brezza", "venticello", "atmosfera" che si crea intorno ad un fiume.

14 Il Beloch avanzò l'ipotesi che Stabia fosse aggregata a Nocera. Cfr., tra l'altro, "Sulla confederazione nocerina", in Arch. Stor. Nap. II (1877), pp. 285-298; Campanien, Breslavia 18902. Le fonti spingevano, del resto, in questa direzione: Strabone, nel passo prima riportato (Geogr. V 247) non fa il nome di Stabia e Plinio il Vecchio, nel passo di cui si sta parlando, fa altrettanto; lo stesso Plinio, inoltre, poco dopo (Nat. Hist. III 9,70) cita Stabia come città scomparsa e ridotta in villam per essere stata distrutta da Silla, come si è detto, durante la guerra sociale, il 30 aprile dell'89 a. C.

15 Cfr. Trist. III 12,11.

16 Sul diritto di una delle monete con leggenda Sarniner, di cui parlava il Nocera (Orditura della storia o memorie di Sarno, suo circondario e diocesi, Napoli 1851), sarebbe riprodotta la testa di un giovane con in fronte un corno d'ariete, nel quale giovane si è voluto vedere questo Epidio Nocerino, se non una simile divinità (cfr. S. Ruocco, Storia di Sarno e dintorni, I, Sarno 1946, p. 20).

17 Sarnia e non, come prima si leggeva, Sarnensis: cfr. Inscriptions latines de l'Algérie, II, Paris 1957, 3606.

18 Cfr., tra l'altro, Sall. Cat. 21.; App. civ. 4,54; Ptol. 4,3,28.

19 La lettura è quella proposta in Inscriptions romaines de l'Algérie, Paris 1855, pp. 251 e 277-278.

20 Tab. Peut. 6,5.

21 Il testo è quello stabilito da R. Gelsomino (Lipsiae 1967).

22 Op. cit., in apparato, ad art. 138.

23 Cfr. la voce "Sarnus mons" del Philipp in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II A,1 col. 31.

24 Vienna 1882 (= rist. 1967).

25 "Alle radici del Vesuvio vi sono fonti di acqua potabile. Da esse si forma un fiume di nome Dracone, il quale scorre vicino alla città di Nocera. Sull'una e l'altra riva di questo fiume si accamparono allora entrambi gli eserciti. Il Dracone è piccolo di letto, ma non transitabile né a cavallo, né a piedi, poiché raccogliendo le acque in stretto spazio e tagliando il terreno molto in profondità da ciascun lato rende come pensili le rive. Non so se la natura del terreno o se quella dell'acqua ne sia il motivo".

26 Per i tre esempi cfr. S. Ruocco, Op. cit., pp. 103, 206, 208.

27 Nel Cinquecento ce ne riporta uno Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta l'Italia: "Ora è nominato questo fiume in alcuni luoghi Scafaro da gli habitatori del paese, per le scafe, che sono tenute in esso per passare quei che vogliono andare a Nocera" (Venezia 1567, f. 193). Poi, in uno strumento di quietanza del 1648, contenente una dichiarazione del Conte di Celano a proposito della parata del fiume che provocava inondazioni e quindi era da eliminare, il Sarno è chiamato di nuovo col procopiano nome "Dragone": flumine Dragone (Cfr. V. degli Uberti, Sul fiume Sarno. Discorso storico-idraulico, Napoli 1844, p. 43). Deriva, invece, direttamente da Procopio il nome Dracon o Draco quando appare in opere di umanisti che trattarono della guerra contro i Goti.

28 Cfr. V. degli Uberti, Op. cit., pp. 21-24.

29 Cfr. J. Schnetz, Itineraria Romana, II, Lipsiae 1940, p. 69, l. 35 e p. 85, l. 32 (Sarnum), p. 74, l. 39 (Arnum).

30 Cosí si esprime G. Brugnoli in Enciclopedia Dantesca, V, 19842, s. v. "Sarno".

31 De origine animae hominis liber ad Hieronymum (Epist. 166). Anche questo giudizio, però, non è sempre interpretato come segno di completa ammirazione, quanto di generico, umano riconoscimento.

32 ""Arnus" - "Sarnus", Dante, Boccaccio e un abbaglio orosiano", in Studi Medievali, S. III, XX (1979), pp. 11-12 (estr).

33 Op. cit., p. 11. Per le citazioni dal Liber Maiorichinus il riferimento è all'edizione curata da C. Calisse, Roma 1904.

34 Op. cit., p. 13. L'edizione di riferimento è quella di M. Lupo Gentile in R.I.S.2, VI, 2, p. 96, l. 21 sg.

35 Op. cit., p. 13. Il documento citato è riportato in Carte dell'Archivio Capitolare di Pisa, 3: 1076-1100, a cura di M. Tirelli Carli, Roma 1977.

36 Op. cit., pp. 3-5. L'edizione di riferimento è O. Hartwig, Quellen und Forschungen zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, II, Halle 1880.

37 Op. cit., pp. 5-6.

38 Nel De Vulgari Eloquentia, a proposito dei modelli latini da imitare, Dante cita Virgilio, l'Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano tra i poeti, e Livio, Plinio, Frontino e lo stesso Paolo Orosio tra quelli "che usarono altissime prose": Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, Virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios, quos amica sollicitudo nos visitare invitat (II 6,7).

39 Va sottolineato che questo stesso passo, soprattutto se alla luce dei "tre moggia d'anella" di Conv. IV 5,19 ("E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza?"), appare in contraddizione con il richiamato passo liviano (XXIII 12,1), dove si parla, è vero, di tre moggi di anelli, ma poi si nega valore alla notizia e la si corregge con l'indicazione di un solo moggio; Dante è invece in armonia con Orosio, che parla appunto di tre moggi di anelli (hist. IV 16,5 in testimonium victoriae suae tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit). Allo stesso modo, in Mon. II 4,9, Dante, nel riportare l'episodio del temporale che impedí il pericolo di Annibale alle porte di Roma, richiama l'autorità di Livio (XXXVI 11), mentre in realtà appare molto piú vicino ad Orosio (Hist. IV 17,5). I due esempi, che si richiamano a due luoghi orosiani peraltro non lontani da quello che contiene l'identificazione Sarnus = Arnus, tornano utili per mostrare l'evidente influenza che su Dante esercitò Orosio (cfr. A. Martina, vv. "Livio" e "Orosio", in Enciclopedia dantesca, Roma 19842, III p. 674; IV p. 206).

40 Cfr. A. Martina, v. "Orosio" in Op. cit., IV, p. 207. Ormista è il titolo con cui furono note le Storie di Orosio, probabilmente per indicare l'"Or[osii] m[undi] ist[ori]a".

41 Cfr. questi versi con Par. XXV 1-9: "Se mai continga che 'l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sí che m'ha fatto per piú anni macro, // vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov'io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; // con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello".

42 E' stato ritenuto autore-falsario della corrispondenza l'estensore di uno dei manoscritti che l'hanno trasmessa (il cod. Laur. XXIX.8, il cosiddetto Zibaldone Laurenziano), vale a dire lo stesso Boccaccio: con questo espediente il certaldese, dopo il 1350, si sarebbe inserito nella vecchia questione di un Dante bravo come poeta in volgare, ma non altrettanto apprezzabile dai dotti come il Mussato per il mancato esercizio della poesia latina, e ne avrebbe dimostrato l'inconsistenza, forse in polemica anche con lo stesso Petrarca che pareva essere dell'avviso di quei dotti. Questa ipotesi, sostenuta non senza argomentazioni e documenti da A. Rossi ed apparsa per un certo tempo convincente o almeno suggestiva, è stata poi decisamente confutata particolarmente da G. Padoan, per il quale è dovuto alla "fantasia" l'avere attribuito la corrispondenza eglogistica al Boccaccio, "ancorché la paternità dantesca di quegli scritti sia lampante, ed elementi oggettivi (errori di trascrizione, diversità di forme grafiche, ecc.) assicurino che il copista non può essere egli l'autore di quei versi" (v. "Boccaccio" in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 19842, p. 646). Cfr., di A. Rossi, "Dante, Boccaccio e la laurea poetica", in Paragone, n. s., XIII (1962), pp. 3-41; "Il carme di Giovanni del Virgilio a Dante", in Studi danteschi XL (1963), pp.133-178; "Boccaccio autore della corrispondenza Dante-Giovanni del Virgilio", in Miscell. Stor. della Valdelsa LXIX (1963), pp. 130-172; "Dossier di un'attribuzione", in Paragone, n. s., XIX (1968), pp. 61-125. Del Padoan cfr. le due recensioni ai primi due studi del Rossi precedentemente citati (in Studi sul Boccaccio I (1963), pp.528-544; II (1964), pp. 475-507), e soprattutto Il pio Enea, l'empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977 e Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Firenze 1978, pp. 151-198.

43 Citiamo dalla edizione rivista da C. S. Singleton (la prima apparve ad Oxford nel 1898): A Dictionary of proper names and notables matters in the works of Dante, Oxford 1968. Lo studioso inglese, a riprova, fa súbito dopo riferimento anche ad un passo del Villani che piú avanti riporteremo, nel quale si ripete l'errore orosiano.

44 Roma 19842, V, pp. 37-38.

45 La "nozione cosí elementare" è, naturalmente, che Virgilio in Aen. VII 738 parla del Sarno e delle terre della Campania, non certo dell'Arno.

46 Il Brugnoli, che pur ha steso un articolo documentato e apprezzabile per la concisione, da una parte non sa evidentemente degli esempi anteriori a Dante, dall'altra ritiene che "le ragioni dell'errore di Dante sono piú profonde e raffinate" (ibid.): "E' infatti credibile che Dante abbia voluto operare una scelta precisa e qualificante, accettando come dato culturale la rara e forse inaudita versione di Orosio sull'identificazione Sarno-Arno: lo dimostra, diremmo, la costanza dell'identificazione che non può essere quindi addebitata a esibizione erudita, ma deve avere un significato di messaggio ideologico" (ibid.). Osservando, quindi, che "Dante cita il Sarno-Arno collegandolo in prevalenza all'età mitica della sua pura infanzia" (ibid.) e che "il patrius fluvius del suo paesaggio perduto non è piú l'Arno ma il Sarno-Arno sul cui antico fons Dante data le sue lettere politiche" (pp. 37-38), egli offre la seguente spiegazione: "Sul piano ideologico l'Arno diventa il Sarno come elemento topografico del sogno dell'esule e non importa certo che non sia un elemento autentico e reale, quando tutto il sogno di Dante di un suo ritorno a una nuova Firenze, lui ancor giovane e Firenze pudica, è privo di qualsiasi collegamento con la realtà sociale e politica. Sul piano culturale basta filologicamente a Dante per giustificare la sua innovazione l'accenno profetico di Virgilio e l'erudizione santa di Orosio, interprete che non erra di Virgilio: nel contesto sacro di reminiscenze e di utopie il vero nome latino dell'Arno (anche se Dante lo conobbe) non ha posto. Arno è il nome del fiero fiume della misera valle popolata da genti ferine, quale Dante vede la Firenze dei suoi tempi; e il fiume è condannato con la valle e i suoi abitanti. Dante infligge all'Arno una damnatio nominis. E non soltanto con l'estrosa e preziosa scoperta dell'equivalenza Sarno-Arno: in Pg XIV dichiara esplicitamente quella damnatio, rifiutandosi di pronunciare il vocabol di quella riviera, / pur com'om fa de l'orribili cose, perché degno / ben è che 'l nome di tal valle pèra (vv. 26-30)" (p. 38).

47 Par. XVII 34-35.

48 Op. cit., p. 37.

49 Cfr. P. Silva, "Questioni e ricerche di cronistica pisana", in Archivio Muratoriano XIII (1913), p. 53. L'esempio è anche in G. Scalia, Op. cit., p. 16.

50 Ad es. "cianciosa" ("vezzosa"), a p. 932 della edizione ricciardiana, dalla quale citiamo (G. Boccaccio, Decameron-Filocolo-Ameto-Fiammetta, Milano-Napoli 1952), dove, però, i curatori C. Salinari e N. Sapegno lo registrano in nota come "napoletanismo". Ma vedi N. Machiavelli, Opere, Firenze 1929, p. 775 ("Perchè di' tu 'ciancie' come i Fiorentini e non 'zanze' come i Lombardi?").

51 Ad es., "scombavata" ("sbavata", "imbavata") si legge, a p. 1000, nel racconto colorito di Agapes ("egli ha piú volte, con la fetida bocca, non baciata ma scombavata la mia").

52 Ad es. "bomere" ("vomere"), a p. 1000, che è usato in senso osceno nel medesimo racconto di Agapes ("gli orti di Venere invano si fatica di cultivare; e, cercante con vecchio bomere fendere la terra di quelli, disideranti li graziosi semi, lavora indarno").

53 Ad es., "capelle" ("caprette"), p. 922; "ovvia" ("incontro"), p. 926; "patulo" ("troppo grande"), p. 934; "mi doce" ("mi educa"), p. 946. Si potrebbe includere anche "Sarno" ("Arno"), di cui si sta parlando, con i suoi derivati, fatta salva la mediazione di Dante.

54 Ad es. il "solea Semiramis entrare nelle camere del figliuolo di Belo" cioè di Nino, alle pp. 942-943, richiama certamente Orosio (Hist. I 4), oltre che Dante (Inf. V 58-59 "Ell'è Semiramis, di cui si legge / che succedette a Nino e fu sua sposa"). Ma lo stesso Dante qui dipende da Orosio.

55 Dante è seguíto, tra l'altro, nell'uso di termini particolari ("superinfusa" di p. 908, che richiama Par. XV 28), di rime preziose ("carribo-tribo" di p. 1045, che richiama Purg. XXXI 130-32), di similitudini (come quella di p. 972 "di tanti colori è dipinto il luogo che appena ne tengono tanti le tele di Minerva o i turchi drappi", che richiama Inf. XVII 16-18 "Con piú color, sommesse e sopraposte / non fer mai drappi tartari né turchi, / né fuor tai tele per Aragne imposte"). Lo stesso uso di "Sarno" (= "Arno") riecheggia l'uso del termine riscontrato nelle opere latine di Dante.

56 Cfr. G. Padoan, Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l'Arno, Firenze 1978, pp. 151-198. Certamente, se fosse esatta la nuova datazione, le glosse che evidenziano l'errore dantesco non potrebbero essere di quello stesso Boccaccio che poi nell'Ameto richiamerà "Sarno" l'Arno e poi ancòra, come si vedrà, correggerà l'errore. D'altra parte non so fino a che punto si possa prospettare la tesi di un chiosatore non fiorentino e conoscitore dei toponimi campani (G. Padoan, Il Boccaccio..., op. cit., p. 189), quando si sa che il Boccaccio è vissuto a Napoli; o ancòra quella piú forzata dello Scalia, per il quale si potrebbe "cogliere nella prima [postilla a Sarno di Egl. II 44] il riflesso, a livello scolastico, di una non improbabile contesa erudita locale volta a rivendicare l'ascendenza virgiliana alla Campania (da notare il puntuale riferimento all'area napoletana), in opposizione alla tradizione fiorentina" (Op. cit., pp. 24-25), quando si sa che lo stesso Boccaccio nel Comento alla Commedia farà riferimento, come si vedrà, proprio al Sarno a mo' di esempio e senza che ce ne fosse necessità.

57 Il testo è quello stabilito dal Petrocchi (Milano 1966-1967).

58 In Studi danteschi XVIII, pp. 32-33.

59 Comentum super Dantis Aldigherii comoediam, a cura di J. P. Lacaita, Firenze 1887, IV, p. 278 (cfr. G. Padoan, Studi sul Boccaccio, II, 1964, p. 403). In una delle recollectae del commento letto a Bologna da Benvenuto intorno al 1375, precisamente nel manoscritto contenente il commento di Stefano Talice da Ricaldone, a proposito dello stesso luogo dantesco si legge: "Aqua Vallis Else, a principio ubi oritur, convertitur in petram; et ita Sarnus in Apulia" (cfr. G. Scalia, Op. cit., p. 30 e n. 169).

60 Cfr. Ch. T. Davis, "The Malispini Question", in A Giuseppe Ermini, II, Spoleto 1970, pp. 227-sg.; G. Scalia, Op. cit., p. 31.

61 Nell'elegia Ad Musam de conversione Sebethi in fluvium, tra i trasfigurati dintorni di Napoli che piangono per la triste avventura amorosa di Sebeto troviamo anche le Sarnides undae (Parthen. II 14,38). I rinomati prodotti del territorio sarnese (quae Sarnensi... / gloria) sono ricordati in De amore coniug. II 4,23-24. Anche per il Sarni recessum è decantato il golfo di Napoli in De amore coniug. II 7,77. Dal Sarno trae il suo nome Sarnis, la ninfa di cui il Pontano rievoca la favola premurosamente cantata al suo amore senile, a Stella vinta dal sonno tra le sue braccia, nei distici di Eridanus I 17, dove anche passione e sentimento, anche realtà e letteratura si alternano. Dal Sarno prende il suo nome anche la ninfa Sarnitis, uno dei trasfigurati luoghi napoletani, che in Lepidina, p. II 28-44 è descritta come una implacabile e pericolosissima dea guerriera (in relazione alla battaglia svoltasi nel territorio sarnese nel 1460, infausta per il re aragonese, o alle non poche leggende sul fiume?). E la 'maschera' del Vesuvio ivi descritta è spaventosa con le sue due zanne (simboleggianti i fiumi di lava), di cui l'una arriva al mare, altera Sarastris fauces, saxa horrida Sarni (Lepidina, p. V 259).

62 Nel territorio sarnese il 7 luglio 1460 avvenne la battaglia che vide l'angioino momentaneamente vittorioso. Perciò nell'opera il Sarno è descritto ampiamente e con precisione: Sarnum in adeso montis latere positum arcem in summo habet dorso quam munitissimam. Sub ipsum autem montem suburbium jacet, in longum porrectum, habitatoribus frequens. Ab ipso suburbio in via Nolana occasum versus, circiter 1600 passus, sub inflexi radicem montis, fontes scatent, qui statim minime vadosum fluvium, qui et ipse Sarnus dicitur, constituunt, quo in loco porta est turri subjecta. Eum autem locum Fauces incolae vocant. Ab altera etiam suburbii parte ad solis exortum, qua Salernum versus est iter, fontes alii manant qui caeteris immisti fontibus, toto passim suburbio scatentibus, alterum, et ipsum nequaquam vadosum flumen efficiunt. Hi amnes, solis alter ab occasu ab exortu alter se petentes ex obliquo, in meridiem mare versus prolapsi, per culta circiter duobus millibus passuum ab ipsis fontibus conjuncto simul alveo confluunt in mare, quod a confluente quidem ipso circiter sex millibus passum abest. Quod medium interjectum est agri, fluminibus, insulae pene in modum, cingitur a Septentrione perpetuis, ac minime perviis montibus clausum. Ager ipse vitibus, atque oleis consitus pabulo quoque abundat plurimo (De bello Neapol. I).

63 Suggestivo è il paesaggio descritto, nel quale pinguia culta vadosus / irrigat et placido cursu petit aequora Sarnus (18-19); efficace l'immagine del dio del fiume accorso, inutilmente però, alle invocazioni delle Ninfe: properat vitreae rex caerulus undae / Sarnus, inexhaustumque vadis ciet agmen aquarum / rauca sonans (90-92).

64 Eppure... l'abbaglio orosiano e dantesco ha avuto un suo séguito. Nei Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei (Cl. di Scienze mor., stor. e filol., S. VIII, I-1946, pp. 425-431) apparve, nel 1947, l'articolo "Arno, Sarno, Serchio", nel quale l'autore, A. Mancini, a conoscenza di alcuni tra gli esempi di Sarnus = Arnus presenti nei documenti pisani, in Dante e nella interpolazione alla Storia fiorentina del Malispini, ma non del passo di Orosio, forse non considerando debitamente che le attestazioni antiche non avvaloravano l'identificazione, da una parte ammetteva una probabile origine erudita dello scambio degli idronimi, dall'altra tentava anche la interpretazione linguistica di quello scambio. Il Mancini proponeva l'equazione Serchio = Sarno, cioè *Aiser < *Aisar (*Ais-ar) = Sarnus < *Esarnus < *Eis-arnus < *Ais-arnus. I due fiumi avrebbero avuto la stessa radice dall'etrusco o mediterraneo ais ("sacro") e da ar ("acqua"), mentre -n sarebbe il suffisso etrusco, ed avrebbero significato il "sacro fiume" (Arnus, invece, sarebbe derivato dal solo ar ed avrebbe significato, quindi, il semplice "fiume", non il "sacro fiume"). Lo stesso studioso riportava anche il parere, da lui richiesto e ottenuto, di F. Ribezzo, il quale pensava che "Sarno" fosse dovuto ad una contaminazione di Serchio + Arno (i due fiumi in un tratto si avvicinano moltissimo), cosí come "Garigliano" era una contaminazione di Gari + Liri, secondo l'equazione Garigliano < Gariliano < Garililiano < Gariliriano = Sarno < (Ai)-sarno, (Au)-sarno < Aisarno, Ausarno < Aisararno, Ausararno. Ha certamente ragione lo Scalia quando rileva che "la questione linguistica non sarebbe stata neppure posta dal Mancini per Sarnus = Arno, se non gli fosse rimasto ignoto l'abbaglio orosiano" (Op. cit., p. 18). Ma noi abbiam visto che son cose che càpitano. O il Sarno pietrifica e fissa nel tempo persino gli errori, quando abbiano a che fare con le sue acque?

  (Dagli " Atti della Accademia Pontaniana ", Nuova Serie - Volume XXXVIII - Anno Accademico 1989 - DXLVII dalla fondazione, Napoli, Giannini, 1990)

(Fine)

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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