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GIUSEPPE CENTONZE

Dal Sarno all'Arno

L'idronimo Sarnus da Virgilio al Sannazaro

*

Parte Terza

Dal Pontano al Sannazaro

(1989)

 

 

Probabilmente con la pubblicazione, a partire dal 1469, e quindi la piú facile diffusione (si trattò di un grossissimo successo editoriale, come oggi si direbbe, visto che fino a tutto il Cinquecento si ebbero quindici edizioni), dell'opera di Plinio il Vecchio, che citava il Sarno e l'Arno come Sarnus ed Arnus, la questione può ritenersi chiusa, dopo un equivoco durato circa mille anni. Grazie a questa svanisce ogni residuo dubbio e, sia pure a distanza di secoli, l'uso di entrambi gli idronimi è finalmente corretto e appropriato, nella produzione letteraria, sicché i due fiumi riacquistano la loro completa identità.

Sarnus ridiventa, cosí, il fiume campàno nelle opere di Giovanni Pontano, lo splendido poeta che ripropose ritmi e musicalità della grande poesia latina con una dolcezza tutta nuova ed una straordinaria semplicità. L'"umbro", come continuavano a chiamarlo, bene conosceva i luoghi napoletani per esservi vissuto al séguito degli aragonesi e anche dopo, fino alla morte che lo colse a settantacinque anni nel 1503; nel 1471 aveva persino ottenuto da Ferdinando I la cittadinanza napoletana.

Già nei versi dei Parthenopei sive Amorum libri II, composti in giovinezza e poi continuamente ripresi, in uno di quei passi in cui il Pontano sa fondere con raffinatezza e abilità la trasfigurazione mitica e il sentimento della natura, compare il riferimento al fiume campàno. Infatti nell'ultima di queste liriche d'amore, l'elegia Ad Musam, de conversione Sebethi in fluvium, in cui appunto si parla del fiume napoletano Sebeto, "ora fiume, prima candido ragazzo"(100), cui "nocque la bellezza, l'esser piaciuto a una ragazza, e l'ira, quanto mal nota!, del dio ceruleo"(101), cosí si descrive l'accorrere dell'irato Nereo ed il compianto dei trasfigurati dintorni di Napoli, non escluso quello delle onde del Sarno:

Ille autem irato properans ad litora curru

coerula coeruleis per vada currit equis;

cuius ob adventum resonant Tritones in antris

candidaque in scopulis laesa remugit aqua.

Excita nympha latet, te somnus perdit inertem

coerulaque in membris fuscina iacta tuis.

Flerunt Noleae, flerunt te Sarnides undae,

flevit discissis mater Acerra genis,

et Stabias nymphas inconsuetumque Vesevum

tunc etiam lacrimis immaduisse ferunt;

scilicet in tenerae recolebat furta iuventae

et memor antiqui maestus amoris erat.

Quello, precipitandosi furente verso la spiaggia sopra il suo cocchio, corre per l'onde azzurre coi suoi azzurri cavalli: per il suo arrivo i Tritoni dan fiato alle trombe negli antri e mugghia l'acqua spumeggiante, sbattendo contro gli scogli. La ninfa, ridestatasi, si nasconde, tu, rimasto lí immobile, fosti vittima del sonno e dell'azzurro tridente scagliato nelle tue membra. Ti piansero le onde di Nola, ti piansero le onde di Sarno, ti pianse Acerra, tua madre, graffiandosi le guance, e dicono che le ninfe di Stabia e il Vesuvio, contro il solito, in quel giorno anch'essi si siano sciolti in lacrime; certo egli riandava col pensiero agli amori furtivi della fresca sua giovinezza ed era mesto al ricordo di una sua antica passione.(102)

I tre libri di elegie del De amore coniugali sono dettati dagli affetti familiari, dal sentimento di pace e di quiete, dalle nostalgie del Pontano.

Nell'elegia settima del primo libro, il poeta, di passaggio nel territorio della Repubblica fiorentina durante la campagna di Ferrara (1482-1484), "animum suum alloquitur", "parla al suo cuore". In essa il desiderio di Ariadna (la moglie Adriana) e di pace si sposa col lamento per l'ostilità della stessa natura, per i monti e i fiumi come l'Arno che dividono i due, e col grido contro Marte violento e le sue armi. Ritroviamo cosí anche Arnus in Pontano (ma "Quid tecum Arne, mihi?" egli dice):

Me miserum, quanti montes et flumina quanta

amplexus prohibent, cara Ariadna, tuos.

Quid tecum, Arne, mihi? Quid cum Rhenoque Padoque?

Aut quid cum telis, Mars violente, tuis?

O pereant ensesque feri galeaeque minaces;

pax, ades, et vincto praelia Marte vacent.

O me infelice, e che grandi monti, che grandi fiumi, Ariadna cara, mi tengono lontano dalle tue braccia! Che cosa ho da spartire con te, o Arno? Che cosa col Reno e col Po? O che cosa con le tue armi, o Marte violento? Che vadano in malora le spade crudeli e gli elmi minacciosi! Vieni, o pace e, gettato Marte in catene, restino inoperose le battaglie.(103)

Nell'elegia quarta del secondo libro ("Laetatur in villa et hortis suis constitus"), tornato dalla milizia alla pace ed alla quiete della sua villa e dei suoi orti, canta con incontenibile gioia le riacquistate, splendide ricchezze del suo campicello, che competono con i prodotti piú rinomati, anche con quelli del territorio sarnese:

Quantus honos mensis, gratia quanta manet:

quae biferis, quae Sarnensi, quae multa Volumbro

gloria, quas laudes Puteolana refert.

Aut haec, aut etiam nostris est maior in hortis:

Alcinoi vincit noster agellus opes.

Quanta abbondanza alla mensa è serbata, e quanta bellezza! Quanta è la gloria dei fichi biferi, del fico di Sarno, del fiore di fico, e quanti elogi riscuote il fico puteolano! O questi, o ancora piú grandi, li abbiamo nel nostro podere: ché il nostro campicello vince i tesori di Alcinoo.(104)

Nella settima, infine, dello stesso libro, nel cantare l'origine e la nascita dei Lepòri ("De ortu et genitura Leporum"), il 'poeta' Pontano non sa separare il suo amore per il mondo classico e la mitologia da quello per il golfo di Napoli:

Vos numeros ne, dia cohors, ne temnite nostros,

si mea sunt vestris cognita plectra horis.

At vos, Dulcidiae nati, qui mitia tecta

Parthenopes, miti rura beata solo,

qui colitis Stabiosque sinus Sarnique recessum

et Surrentinis litora nota iugis,

cantibus his spirate, hilares tenerique Lepores,

lenis et afflatu mulceat aura novo,

qualem, cum teneris lac instillaret alumnis,

spirabat niveo dia Melissa sinu.

Sic vobis sit triste nihil, sint otia laeta,

Mopsopius grato sic fluat ore liquor.

Voi, o schiera divina, non disprezzate i miei versi, se la mia lira è nota al vostro stuolo. E voi, o figli di Dulcidia, che vivete fra le dolci case di Partenope, nei suoi campi felici per la dolcezza del suolo e nel golfo di Stabia e nei recessi di Sarno e sulle coste note per i colli di Sorrento, alitate su questi miei canti, o giocondi e teneri Lepòri, e il vostro dolce soffio li temperi d'una nuova dolcezza, come quella che la divina Melissa, quando allattava i teneri figli, spirava dal niveo suo seno. E cosí non esista tristezza per voi, siano pieni di gioia i vostri ozi e dalla vostra bocca stilli il miele dell'Attica.(105)

Eridanus, i due libri di versi da assegnare in buona parte agli anni tra il 1483 ed il 1490, è opera dettata principalmente dall'amore per Stella, di Argenta in provincia di Ferrara; e dal fiume di queste terre, il Po, prendono il nome il primo componimento e l'intera raccolta. L'amore senile assume nell'alternarsi dei distici i toni di una condizione incerta tra la passione e il sentimento, tra la memoria e la visione, tra la realtà e la letteratura; in certi punti senti che il poeta ti avvince e ti coinvolge in quel suo mondo di tensione e di contemplazione, come quando rievoca la favola di Sarnide (la ninfa che trae il suo nome da quello del Sarno) e del Fauno, cantata con tanta, tanta premura a Stella vinta dal sonno tra le sue braccia dopo una intensa, delicatissima manifestazione d'amore:

Ipse tibi tenuem procuro sedulus auram

composita et moveo lenia flabra manu,

ipse tibi somnos cantu levo, cantus amores

Sarnidis et Fauni dulcia furta refert:

"Faune, veni, tibi Sarnis adest ad flumina nota;

ad notas salices, candide Faune, veni.

Ecce tibi niveum violae cum flore ligustrum

iungo et Puniceis lilia cana rosis;

roscida servantur, legi tibi quae modo, fraga,

fragaque quot totidem basia et ipsa paro.

Huc ades, o formose, tibi nam nuper ad amnem

siccavique meam disposuique comam,

Pierides compsere caput, dum corpus et ipsae

et crinis flavos molliter amne lavant,

inde comam Assyrio certatim unxere liquore;

inde Arabo nostrum spirat odore caput.

Quin citharam docuere et me fecere magistram

et data pro magno munere eburna chelys.

Faune, veni, te Sarnis amat, suspirat et unum

et parat in niveo gaudia multa sinu,

fistula te et calami vocitant, vocat aestus et unda

auraeque et murmur subsilientis aquae".

His ego mulcebam somnos. Tibi purpura mollis

tingebat niveas flore decente genas,

qualis ubi ad thalamos Hebe deducta mariti

ad cupidi erubuit basia prima viri.

Io, premuroso, ti faccio vento pian piano ed agitando la mano a ventaglio suscito un soffio d'aria e cullo, cantando, il tuo sonno e il mio canto ti narra gli amori di Sarnide, le gioie furtive di Fauno. - Vieni, Fauno: per te Sarnide è qui, presso le note correnti, vieni, bel Fauno, fra i noti salici. Ecco, io mescolo per te nivei ligustri alle viole, bianchi gigli alle vermiglie rose; conservo per te delle fragole che or ora ho raccolte, tutte umide di rugiada: per quante sono le fragole, tanti baci vorrò darti. O mio bel Fauno, vieni: per te, poco fa, sulla riva del fiume, ho asciugato e acconciato i miei capelli; li hanno pettinati le Pieridi, mentre si bagnavano anch'esse e lavavano delicatamente nella corrente le loro bionde chiome; poi, a gara, me li hanno intrisi di aromi assiri ed ora spande il mio capo un profumo d'oriente. Esse mi hanno anche insegnato a suonare la cetra, facendo di me un'artista provetta, e m'hanno fatto lo splendido dono d'una lira d'avorio. Fauno, vieni, Sarnide è innamorata di te, sospira te solo e molte gioie ti riserba sul suo candido seno; te chiamano la zampogna ed il flauto, te l'onda che si frange e la brezza e il mormorio dell'acqua che zampilla. - Con questo canto io ti cullavo. E un delicato rossore tingeva con suo bel fiore le tue guance di neve, come le guance di Ebe, quando, portata in corteo nel talamo nuziale, arrossí ai primi baci dell'avido sposo.(106)

Lepidina, una lunga egloga composta intorno all'anno 1496, che descrive le spettacolari nozze del fiume Sebeto con la ninfa Partenope attraverso sette pompae, sette cortei in festa, è la rappresentazione, per mezzo di figure allegoriche, della 'napoletanità' di fine '400, delle attività caratteristiche, dei quartieri, delle bellezze del golfo.

La festa è rappresentata nelle descrizioni fatte o fatte fare da Macrone e Lepidina, due sposi innamorati che ricordano i momenti e riscoprono i luoghi del loro amore. Ecco un momento del loro dialogo, in cui i due indicano e descrivono le Nereidi, ninfe ed insieme vere e proprie trasfigurazioni di luoghi napoletani, come si può dedurre dai loro nomi Pausilype, Mergilline, Sarnitis. Quest'ultima - il cui nome deriva da Sarnus, come affermava l'umanista Pietro Summonte, discepolo del Pontano, nella sua edizione della Lyrica pontaniana(107) - è rappresentata come una implacabile e pericolosissima dea guerriera (in relazione alla battaglia svoltasi nel territorio sarnese nel 1460, infausta per il re aragonese, come fra poco si vedrà, o alle non poche leggende sul fiume?), da cui bisogna guardarsi:

    Macron

Illa illa; haud aliam vidi gestare puellam

aptius aut pharetram aut intendere fortius arcum.

Atque alio hos arcus, alio tua spicula tende;

me meus ignis habet et habent mea pectora vulnus.

    Lepidina

Me miseram, meus est, alios pete, nympha, iuvencos;

mi Macron, tege me, collo et tua brachia necte;

ne saevi, Sarniti dea, et tua tela retracta.

    Macron

Te teneo, avertit telum dea, fixit et Aulum.

Ah miser, ut madidis vultum demisit ocellis.

    Lepidina

O Macron, memini, mater me docta monebat:

'Sarnitim fuge, nata, trucem Sarnitida vita;

fert intinctum oculis, arcu fert saeva venenum,

non parcit pueris saevitque inimica puellis'.

Hinc videas Satyros passim, hinc languere Napaeas,

deperit hanc Alcon, octogenarius Alcon,

insanit Morphe, nonagenaria Morphe,

deseruit silvas, qui nunc colit aequora, Faunus.

Macrone: Quella, quella! Non ho visto mai nessun'altra fanciulla portare meglio la faretra o tendere con piú coraggio l'arco. Ma rivolgi altrove questo tuo arco, dirigi altrove le tue frecce: io ho già il mio fuoco che mi brucia, il mio cuore ha già la sua ferita.

Lepidina: Oh povera me, questo è mio! Ti prego, ninfa, cercati altri giovani! Difendimi, Macrone mio, gettami le braccia al collo! E tu, non essere crudele, o dea Sarnitide, e ritira le tue frecce.

Macrone: Ti tengo stretta, la dea ha cambiato bersaglio ed ha trafitto Aulo. Poverino, come ha abbassato il volto, con gli occhi pieni di lacrime!

Lepidina: Ricordo, Macrone, che la saggia mamma mia mi diceva: - Guardati da Sarnitide, figlia mia, fuggi l'implacabile Sarnitide. Quella perfida porta sull'arco una freccia mortale, intinta nel veleno dei suoi occhi; non ha pietà dei giovani e contro le fanciulle infierisce con animo ostile. - Per colpa sua potresti vedere qua e là intristire i Satiri, intristire le Napee; per lei si strugge Alcone, l'ottantenne Alcone, impazzisce Morfe, la novantenne Morfe, ha abbandonato i suoi boschi Fauno, che ora vive in riva al mare.(108)

Ed ecco come Lepidina si fa descrivere la 'maschera' del "Vesuvio, che scende in persona dalla sommità del monte"(109), spaventosa figura con due zanne (simboleggianti i fiumi di lava), di cui una arriva "alla foci sarastre, alle orride pietre del Sarno":

ille superbum

nutat et inflexo quassat nigra tempora cornu,

quod longe horrescit saetis hinc inde reflexis.

At calvum caput, et nullo vestitur amictu;

stant mento sentes horrentque ad pectora dumi.

Ah vereor, soror, et dicam tamen: huius ab ore

curvantur geminae sannae, quarum altera pontum

taetra petit fluctusque ferox et litora verrit,

altera Sarastris fauces, saxa horrida Sarni.

Egli scuote superbo il capo e scrolla le tempie nere con un ciuffo ripiegato, che da lontano fa terrore per quelle setole ripiegate di qua e di là. Ma il capo è calvo e non è coperto dal mantello; ha spine sul mento e ispidi rovi sul petto. Ho paura, sorella, ma lo dico: dalla sua bocca si incurvano due zanne, una che raggiunge, nera, il mare e solleva feroce flutti e rive, l'altra le foci sarastre, le orride pietre del Sarno.(110)

L'idronimo ricorre anche nella elegante ed efficace prosa del De bello Neapolitano, la narrazione storiografica ed insieme letteraria in sei libri, scritta dopo il 1494, dei fatti della guerra tra Ferdinando I d'Aragona e Giovanni d'Angiò, dei quali il Pontano aveva diretta esperienza per aver prestato nell'occasione i suoi servigi e aver offerto i suoi consigli al re aragonese. Il territorio sarnese fu il luogo della battaglia avvenuta il 7 luglio 1460, che vide l'angioino momentaneamente vittorioso; e il fiume Sarno è citato e descritto ampiamente nel primo libro:

Sarnum in adeso montis latere positum arcem in summo habet dorso quam munitissimam. Sub ipsum autem montem suburbium jacet, in longum porrectum, habitatoribus frequens. Ab ipso suburbio in via Nolana occasum versus, circiter 1600 passus, sub inflexi radicem montis, fontes scatent, qui statim minime vadosum fluvium, qui et ipse Sarnus dicitur, constituunt, quo in loco porta est turri subjecta. Eum autem locum Fauces incolae vocant. Ab altera etiam suburbii parte ad solis exortum, qua Salernum versus est iter, fontes alii manant qui caeteris immisti fontibus, toto passim suburbio scatentibus, alterum, et ipsum nequaquam vadosum flumen efficiunt. Hi amnes, solis alter ab occasu ab exortu alter se petentes ex obliquo, in meridiem mare versus prolapsi, per culta circiter duobus millibus passuum ab ipsis fontibus conjuncto simul alveo confluunt in mare, quod a confluente quidem ipso circiter sex millibus passum abest. Quod medium interjectum est agri, fluminibus, insulae pene in modum, cingitur a Septentrione perpetuis, ac minime perviis montibus clausum. Ager ipse vitibus, atque oleis consitus pabulo quoque abundat plurimo.

Sarno, posta sulla costa corrosa del monte, ha sulla sommità del dorso una rocca fortificatissima. Sotto lo stesso monte, poi, è situato un borgo, esteso in lunghezza, con molti abitanti. A circa 1600 passi dal borgo, verso occidente sulla via di Nola, alla radice del monte che s'incurva, scaturiscono delle fonti che súbito formano un fiume per nulla guadabile, detto anch'esso Sarno, dove è una porta ai piedi di una torre. Il luogo è chiamato Foci dagli abitanti della zona. Anche dalla parte opposta del borgo, ad oriente, per dove si va a Salerno, sgorgano altre fonti, che, unite a tutte le altre scaturenti in diverse parti del borgo, formano un secondo fiume, anch'esso per nulla guadabile. I due fiumi, venendosi incontro di traverso, l'uno da occidente, l'altro da oriente, scorrendo verso il mare in direzione Sud, avendo congiunto l'alveo a circa due miglia dalle stesse fonti, attraverso le campagne confluiscono verso il mare che dalla confluenza dista circa sei miglia. Il terreno che si trova in mezzo è cinto dai fiumi quasi a mo' di isola e chiuso a settentrione da monti ininterrotti e inaccessibili. Lo stesso terreno, piantato a viti e olivi, abbonda anche di numerosi pascoli.(111)

Sulle orme del Pontano, il napoletano Jacopo Sannazaro vissuto dal 1457 al 1530 al servizio devoto e fedele, anche nell'esilio, degli Aragonesi e profondamente dedicato all'attività letteraria, ha lasciato una raffinatissima produzione in latino, appartenente quasi tutta al periodo successivo al 1505, successivo, cioè, al suo ritorno a Napoli dalla Francia.

Anteriore al 1501, l'anno della partenza, è però il breve poemetto Salices, dove si parla delle ninfe delle rive del Sarno, le quali, per sfuggire all'assalto dei Satiri e di altre divinità agresti, si gettano nelle acque del fiume e sono trasformate in salici. Ecco un momento iniziale del racconto con la breve e suggestiva descrizione del Sarno:

Forte inter virides, si vera est fama, genistas

capripedes Satyri passimque agrestia Panes

numina cum Faunis et montivagis Silvanis,

exercet dum Sol raucas per rura cicadas,

vitabant aestus, qua pinguia culta vadosus

irrigat et placido cursu petit aequora Sarnus

- grata quies nemorum, manantibus undique rivis

et Zephyris densas inter crepitantibus alnos -

dumque leves aptant calamos, dum sibila pressis

explorant digitis, tenuique foramina cera

obducunt, vario modulantes carmina cantu,

auricomae viridi speculantur ab ilice Nymphae

dulcia clarisonis solventes ora cachinnis.

Per caso tra le verdi ginestre, se è vera la fama, i Satiri dai piè di capra e qua e là i Pani, divinità agresti, con i Fauni e i Silvani, che vagano per i monti, mentre il sole affaticava le roche cicale per i campi, evitavano la calura, dove il Sarno irriga poco profondo le fertili campagne e con placido corso cerca il mare - è grata la quiete dei boschi, mentre sgorgano da ogni parte le acque e gli Zefiri crepitano tra i folti ontani - e mentre preparano le lievi canne, mentre provano i suoni con le dita premute, e con la morbida cera chiudono i fori, modulando canzoni con vario suono, le Ninfe dai capelli d'oro spiano dal verde leccio aprendo la bocca con risate squillanti.(112)

I vv. 85-94 di questo "carme maturato presso le onde del fiume" (v. 4 flumineas properatum carmen ad undas) contengono un momento di intensa drammaticità, successivo all'assalto dei Satiri, quando alle Ninfe si rivela vana ogni possibilità di fuga e di salvezza:

Tum denique ad undas

consistunt trepidae, flavosque a vertice crines

cum lacrimis, gemituque, et flebilibus lamentis

abscindunt, Sarnumque vocant, liquidasque Sorores.

Dumque vocant, fundo properat chorus omnis ab imo

Naiadum; properat vitreae rex caerulus undae

Sarnus, inexhaustumque vadis ciet agmen aquarum

rauca sonans, sed quid Sarnusve, aut illa natantum

agmina Naiadum possint, ubi ferrea contra

stant fata, et duro leges adamante rigescunt?

Alla fine si fermano tremanti presso le onde e si strappano dal capo i biondi capelli con lacrime, gemiti e penosi lamenti, e invocano il Sarno e le sorelle Ninfe delle fonti. E mentre invocano, dalle parti piú profonde accorre in fretta tutto il coro delle Naiadi; accorre il cerulo re della limpida onda, il Sarno, e solleva con le onde una inesauribile massa di acque, con voce cupa. Ma che cosa possono o il Sarno o le schiere delle Naiadi nuotanti, quando si oppone il ferreo fato e le leggi come il duro acciaio sono inflessibili?

Le Ninfe decidono allora di morire lanciandosi nel Sarno, ed è a questo punto che sono trasformate in salici. La partecipata descrizione della metamorfosi rivela al lettore il gusto e la perizia del poeta, che riecheggia Ovidio e tuttavia anticipa la sensibilità barocca. Nell'immagine finale, poi, paesaggio e sentimenti umani sono profondamente fusi: le Ninfe ormai non sono piú tali e sono divenute "completamente salici, ma con un solo sentimento, quello di sfuggire agli Dei silvani e, rimaste ferme al margine della riva, piegarsi verso il centro del fiume" (vv. 111-112 ac penitus Salices, sensus tamen unicus illis: / silvicolas vitare Deos; et, margine ripae / haerentes, medio procumbere fluminis alveo).

La produzione del Sannazaro precedente all'esilio fu soprattutto in volgare e cominciò con l'Arcadia, ideata nel 1483 per raccogliere egloghe già composte verso il 1480, la cui prima redazione ebbe termine nel 1485-86, la seconda ebbe inizio nel 1496 e continuò fino alla edizione del 1504.

La tormentata opera, un singolare e fortunatissimo romanzo pastorale organizzato su una struttura di prose leganti componimenti lirici, contiene tra racconti minori uno piú ampio sul pastore Sincero (lo stesso poeta), il quale, in esilio per amore e non solo per amore alle pendici del monte Partenio in Arcadia, alla fine ritorna a Napoli ed ai suoi amici raggiungendo le acque terrestri sotterranee e seguendo il Sebeto, il piccolo fiume napoletano. Nella dodicesima prosa, a Sincero che sulla via del ritorno è meravigliato per "un gran foco" e per "un puzzo di solfo" la Ninfa accompagnatrice spiega secondo la mitologia il fenomeno dei vulcani e le rovine che provoca tra gli altri il Vesuvio. Nel suo discorso, che contiene immagini, toni e considerazioni che per molti versi sembrano anticipare il Leopardi della Ginestra, la pensosa Ninfa parla anche di Pompei "irrigata da le onde del freddissimo Sarno":

Cosí ancora sotto il gran Vesevo ti farei sentire li spaventevoli muggiti del gigante Alcioneo; benché questi credo gli sentirai, quando ne avvicinaremo al tuo Sebeto. Tempo ben fu che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme e con cenere coperse i circostanti paesi, sí come ancora i sassi liquefatti et arsi testificano chiaramente a chi gli vede. Sotto ai quali chi sarà mai che creda che e populi e ville e città nobilissime siano sepolte? Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la ruina del monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei, et irrigata da le onde del freddissimo Sarno, fu per súbito terremoto inghiottita da la terra, mancandoli credo sotto ai piedi il firmamento ove fundata era. Strana per certo et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tòrre dal numero de' vivi! Se non che finalmente sempre si arriva ad un termino, né piú in là che a la morte si puote andare.(113)

Anche il termine volgare "Sarno", quindi, dopo la parentesi del Boccaccio nell'Ameto, riacquista del tutto nella nostra letteratura il suo vero e solo significato di fiume della Campania; e cosí pure il termine "Arno" da solo può definitivamente significare il fiume della Toscana.

Ormai, se pure lo stesso Dante, padre della nostra lingua letteraria e primo studioso del volgare, aveva affermato, errando, di aver bevuto al suo Sarnus prima di mettere i denti, e tuttavia non aveva suscitato scandalo tra i dotti del tempo, ora o in avvenire si sarebbe certamente sorriso se per caso si fosse sentito qualche altro protagonista della nostra letteratura e studioso della nostra lingua manifestare l'intenzione di "risciacquare i suoi panni in Sarno", anziché "in Arno".

 

* * *

 

Eppure... almeno tra alcuni eruditi e studiosi l'abbaglio orosiano e dantesco ha avuto un suo séguito.

Nei Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei(114) apparve, nel 1947, l'articolo Arno, Sarno, Serchio(115). In esso l'autore, A. Mancini, a conoscenza di alcuni tra gli esempi di Sarnus = Arnus presenti nei documenti pisani, in Dante e nella interpolazione alla Storia fiorentina del Malispini, ma non del passo di Orosio, forse non considerando debitamente che le attestazioni antiche non avvaloravano l'identificazione, da una parte ammetteva una probabile origine erudita dello scambio degli idronimi, dall'altra tentava anche la interpretazione linguistica di quello scambio.

 

Il Mancini proponeva l'equazione Serchio = Sarno, cioè *Aiser < *Aisar (*Ais-ar) = Sarnus < *Esarnus < *Eis-arnus < *Ais-arnus. I due fiumi avrebbero avuto la stessa radice dall'etrusco o mediterraneo ais ("sacro") e da ar ("acqua"), mentre n sarebbe il suffisso etrusco, ed avrebbero significato il "sacro fiume" (Arnus, invece, sarebbe derivato dal solo ar ed avrebbe significato, quindi, il semplice "fiume", non il "sacro fiume").

Lo stesso studioso riportava anche il parere, da lui richiesto e ottenuto, di F. Ribezzo, il quale pensava che "Sarno" fosse dovuto ad una contaminazione di Serchio + Arno (i due fiumi in un tratto si avvicinano moltissimo), cosí come "Garigliano" era una contaminazione di Gari + Liri, secondo l'equazione Garigliano < Gariliano < Garililiano < Gariliriano = Sarno < (Ai)-sarno, (Au)-sarno < Aisarno, Ausarno < Aisararno, Ausararno.

 

Ha certamente ragione lo Scalia quando rileva che "la questione linguistica non sarebbe stata neppure posta dal Mancini per Sarnus = Arno, se non gli fosse rimasto ignoto l'abbaglio orosiano [...]. Lo studioso avrebbe trovato nella svista un valido appiglio a sostegno della, pur ripetutamente ammessa, origine dotta dello scambio onomastico"(116).

Ma noi abbiam visto che son cose che càpitano.

O il Sarno pietrifica e fissa nel tempo persino gli errori, quando abbiano a che fare con le sue acque?

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

100) Parthenopei II 14, 16 Nunc amnis, certe candidus ante puer.

101) Parthenopei II 14, 17-18 Forma tibi nocuit, nocuit placuisse puellae, / iraque coerulei quam male nota dei.

102) Parthenopei II 14, 32-44. Traduzione di Liliana Monti Sabia, in Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa, L. Monti Sabia, Milano-Napoli 1964, p. 445.

103) De am. coniug. I 7, 7-12. Traduzione di L. Monti Sabia, in Op. cit., p. 467. L'Arnus lo ritroveremo in una piú tarda composizione, Eridanus II 16, come fiume che con la sua acqua pericolosa fa innamorare Marino Tomacelli, un suo amico come lui non piú giovane.

104) De am. coniug. II 4, 22-26. Traduzione di L. Monti Sabia, in Op. cit., p. 479.

105) De am. coniug. II 7,73-84. Traduzione di L. Monti Sabia, in Op. cit., p. 489. Annota la Monti Sabia: "I Lepores sono i gemelli nati dall'amore di Apollo e Dulcidia, una delle Grazie del corteo di Venere: creati dalla fantasia del Pontano, sono la mitica personificazione dell'incanto rasserenatore del golfo di Napoli" (Ibid., pp. 484-485). Quanto a Sarni, forse si potrebbe anche renderlo con "il Sarno", intendendo cioè il fiume, anziché la città.

106) Eridanus I 17, 9-34. Traduzione di L. Monti Sabia, in Op. cit., pp. 709-711.

107) Napoli 1505. A proposito di Prochyte e Caprite (pompa II, v. 17) e Sarnitis (pompa II, vv. 34 e 38) egli annota: "A Prochyta, Capreis Sarnoque nomina deduxit". Il Summonte pubblicò, dal 1505 al 1512, tutta l'opera del Pontano.

108) Lepidina, pompa II, vv. 28-44. Traduzione di Liliana Monti Sabia, in Ioannis Ioviani Pontani Eclogae, Napoli 1973.

109) Lepidina, pompa V, v. 231 Ipse autem monte e summo [...] Vesevus.

110) Lepidina, pompa V, vv. 254-259.

111) De bello Neapol. I. Da notare come la prima parte del brano sia stata seguíta quasi punto per punto da Camillo Porzio ne La congiura dei Baroni: "E' Sarno in sulla costa di un monte edificato: soggiacegli nel piano il borgo; e nel piú alto giogo siede la fortezza che il borgo insiemamente con la terra riguarda. Quindi, in camminando in Napoli forse mille e cinquecento passi, favvisi incontro il fonte del fiume Sarno, sopra del quale a una porta guardata da una torre naturalmente dal fiume e dal monte afforticata. Questo luogo dagli abitatori della contrada veniva detto le foci di Sarno, che venticinque anni addietro dalla gravissima rotta di Ferdinando era stato nobilitato" (II 9).

112) Salices, vv. 14-26.

113) Arcadia XII, in I. Sannazaro, Opere volgari, Bari 1961, pp. 115-116.

114) Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, ser. 8ª, I (1946), pp. 425-431.

115) Cfr., in proposito, anche G. Scalia, Op. cit., pp. 16-18.

116) Op. cit., p. 18.

(Da "Cultura e Territorio", VI-1989, pp. 145-158)

(Fine)
 

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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