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GIUSEPPE CENTONZE

Con Fucini
da Castellammare a Sorrento

(1988)

 

 

Nelle nove Lettere a un amico, che costituiscono il volume Napoli a occhio nudo, stampato a Firenze nel 1878 dai Successori Le Monnier (1), Renato Fucini riporta le sue impressioni e le sue esperienze di viaggiatore tra le "vergogne" e le bellezze di Napoli e dintorni.

Il viaggio avvenne nel maggio del 1877. Fucini, che aveva appena compiuto i trentaquattro anni, non si era ancòra cimentato con la prosa in un'opera ampia e impegnata (si accingeva ora a farlo). E tuttavia si era già fatto conoscere nel '70 a Firenze, mentre era impiegato al Municipio come perito agrario, per certi suoi sonetti satirici in vernacolo pisano, di sapore popolare e di tono in qualche misura farsesco e bozzettistico, a volte ospitati sul giornale "Il Piovano Arlotto", per lo più diffusi oralmente come opera di Neri Tanfucio (anagramma del suo vero nome). Questi gli valsero un articolo elogiativo di Pietro Fanfani sulla "Nuova Antologia" (2), la successiva pubblicazione per i tipi dell'editore Pellas (3), quindi il passaggio alla più naturale attività letteraria ed alla più appropriata carriera scolastica, a cominciare dalla professione di insegnante di lettere (4). Gli valsero anche l'introduzione negli ambienti artistici e letterari della città, tra i quali il noto e importante salotto del sindaco Ubaldino Peruzzi.

Probabilmente, in un primo tempo, a parte quel che gli consentivano il suo sentimento della libertà e quello intensissimo della natura, derivatigli dall'essere vissuto e dall'essere stato educato nei primi anni della sua vita nella Maremma grossetana, a parte quel che gli consentivano i residui degli ideali risorgimentali e della forte passione garibaldina, a parte l'apprezzato esprit populaire di Neri Tanfucio, il Fucini non diede un apporto considerevole e originale alla vivacità del dibattito culturale fiorentino. Si vantava, è vero, di aver letto con passione fin da piccolo l'Ariosto e il Tasso, di provare grande interesse per i romanzi di Tommaso Grossi e di Massimo D'Azeglio (5), nonché di essere continuamente attratto dal poemetto in livornese La Betulia Liberata; ma poiché nelle sue opere, in aggiunta a questi, si faranno pochi altri nomi, probabilmente sarà stato uomo di poche letture, e lo era davvero secondo molti studiosi, che forse non notano o non considerano, tuttavia, le tracce di altre e più vaste presenze letterarie nelle stesse opere (6). Allo stesso modo era, forse, di non approfondita cultura, se si pensa al suo rifiuto dei filosofi contemporanei, quali Nietzsche e Schopenhauer, che considerava sapientissimi, ma fin troppo complicati in relazione ai suoi gusti semplici (7). Inoltre, quanto alle sue idee sulla politica, pare si limitasse a non tollerare di essa le "maledette divisioni'' (8).

Si vuole che il fenomeno fosse un po' più vasto e che gli ambienti letterari fiorentini generalmente fossero un po' troppo provinciali. Per alcuni, la narrativa toscana del secondo Ottocento non sapeva uscire dai limiti del "colore locale", del "piccolo mondo", e non si poneva nemmeno l' "ostacolo dell'elaborazione linguistica" (9) . Ma se può esser vero che, nel passato, gli Amici Pedanti (Carducci, Chiarini, Targioni-Tozzetti, etc.) avessero spinto nella direzione del purismo, dell'antiromanticismo e del patriottismo, è pure vero che gli stessi non erano rimasti nei limiti di un ristretto provincialismo (basti pensare a quanto aveva fatto un Enrico Nencioni per diffondere la conoscenza delle letterature straniere); così come accanto a poeti satirici quali Antonio Guadagnoli, che avevano idealizzato un ozioso e divertente mondo provinciale, altri come Giuseppe Giusti erano stati caratterizzati dall'impegno e dalla passione politica.

E comunque Firenze ricopriva un ruolo di prim'ordine nella cultura di metà Ottocento, come testimoniano la attiva presenza di importanti case editrici e il fervore intorno alla "Nuova Antologia", nata nel '66, che anche nel nome voleva richiamare la gloriosa "Antologia" del Vieusseux. E poi c'era stato De Sanctis con il suo "realismo", c'erano stati dal '64 Capuana, dal '69 Verga, i quali al realismo tendevano.

Per non parlare dell'Istituto di Studi Superiori. Qui insegnò Pasquale Villari, che cercava di applicare nelle scienze umane, come "metodo storico", il "metodo sperimentale" delle scienze naturali, e che aveva pubblicato nel '66 sul "Politecnico" La filosofia positiva e il metodo storico, la prolusione al corso tenuto l'anno precedente, vero e proprio manifesto del positivismo italiano. Qui insegnò Paolo Mantegazza, che nel '68 proprio sulla "Nuova Antologia" aveva pubblicato La scienza e l'arte della vita in Francia, il noto saggio in cui egli si era chiesto se il futuro della letteratura, e del romanzo in particolare, non dipendesse dalla scienza, dalla fisiologia, che sole possono indagare sulla vita. Qui insegnarono Trezza e Comparetti.

Anche nel campo delle arti figurative non poteva non stimolare l'intensa attività dei macchiaioli, da non ridurre a un movimento provinciale, ma da riconoscere come una delle fucine artistiche vive e straordinariamente interessanti dell'Italia in contatto con le migliori personalità - da Morelli a De Nittis, da Boldini a Zandomeneghi, per non parlare di Degas -, i quali, con il colore, la luce, il chiaroscuro, la 'macchia', riscoprivano il vero, la realtà, la natura e la gioiosa libertà della pittura in plein air.

Né Firenze 'capitale' poteva rimanere un fatto irrilevante e non porre più direttamente la cultura toscana di fronte ai nuovi problemi 'nazionali', al problema meridionale, al problema 'Napoli'. E, soprattutto, non si dimentichi il fondamentale ruolo svolto, da tempo, ancòra una volta, dalla presenza di Pasquale Villari, che, dopo l'articolo del '66 Di chi la colpa, insisteva sulla questione meridionale con corrispondenze da Napoli e con le Lettere meridionali del '75 (in edizione definitiva nello stesso anno dell'uscita di Napoli a occhio nudo, il 1878).

In questo clima culturale, che dovrebbe in qualche misura consentirci di ridimensionare la ristretta visione di un ambiente e di una letteratura toscana troppo provinciali, nacque l'idea di Napoli ad occhio nudo di Renato Fucini.

Nel caso, più particolare, di questo giovane e debuttante scrittore, lo stretto contatto coi macchiaioli, la loro amicizia, l'assimilazione del loro linguaggio pittorico e del sentire che ne era alla base, prenderanno forma sui suoi fogli in certe caratteristiche e personali descrizioni di paesaggi e ambientazioni che tutti riconosceranno interessanti; l'influenza del Villari non necessita di altra dimostrazione se non che fu lo stesso famoso meridionalista a spingerlo, per stima, a recarsi nella "Napoli dolorosa" perché la visitasse accompagnato da Giustino Fortunato.

Potevano spingere ad una tale visita anche l'interesse e la curiosità intorno alla città 'antica', 'pittoresca' e 'caratteristica' (ed ai suoi dintorni) suscitato, per un secolo, prima dalla letteratura sulle antichità e dalla immensa produzione letteraria e pittorica nata nel fervido periodo del grand tour (resoconti di viaggi, descrizioni, guide illustrate, album, tele, acquerelli, etc.), poi dalle opere che illustravano usi, costumi, aspetti caratteristici e figure tipiche, come quella recente e famosissima in due volumi ricchi di acqueforti acquerellate diretta da Francesco De Bourcard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (10); e, non ultimo, l'interesse intorno alla città 'diversa', 'strana', 'misteriosa' e abbrutita dalla miseria, suscitato dalle impressionanti opere di Francesco Mastriani, talvolta veri e propri "studi storici", come voleva l'Autore, rientranti nel sempre più diffuso gusto naturalistico (11).

Si aggiungano, infine, come si sa, l'interesse nazionale intorno al problema del Sud, la 'palla al piede' della nuova Italia che non riusciva a decollare e che su di esso 'scientificamente' si interrogava e indagava con varie inchieste, a cominciare da quella del Massari sul brigantaggio nelle province napoletane; e, sul fronte letterario, il tentativo del Verga, che, avendo pubblicato Nedda nel '74 e pubblicando Primavera e altri racconti nello stesso 1877, ricercava la possibilità di un'arte che si cimentasse in maniera 'impersonale' sul vero e sui problemi delle genti meridionali.

Fucini partì per Napoli e si presentò a Giustino Fortunato. Questi, di ventinove anni, stava già accorandosi per i problemi del Mezzogiorno (sui quali stenderà relazioni dal '78 in poi e impernierà la sua azione politica dall' '80, prima come deputato di Melfi e poi come senatore, proponendo a tutta l'Italia la non tradizionale visione di un Sud povero nella terra e infelice per natura); e, tre anni prima, aveva tradotto le Lettere da Napoli di Goethe e aveva raccolto insieme precedenti articoli su Napoli, di varia natura - La pittura napoletana del Museo Nazionale, Gite pedestri ne' Campi Flegrei, Le Città sepolte, Le Badie, Una traversata a Paestum, Ascensione notturna al Vesuvio -, col titolo di Ricordi di Napoli, "ricordi di gratissime impressioni, còlte in alcuni giorni di liete e piacevoli passeggiate", non con intenti letterari o storici o sociali, bensì con il proposito di offrire "un itinerario breve ma fedele, senza esagerazioni e senza pedanteria", com'egli stesso aveva dichiarato nella Prefazione (citiamo dalla edizione del 1987, che apre la Nuova serie della collana "Biblioteca Napoletana" della Società Editrice Napoletana). In questi Ricordi di Napoli risaltava il suo atteggiamento nei confronti di un paesaggio e di una natura che, per la loro bellezza e imponenza, rendevano muti, pensierosi, riverenti, ma sempre sereni, sempre sorridenti, mai tristi: un modo certamente romantico di intendere il paesaggio e la natura, col quale si potranno utilmente confrontare le sensazioni e le immagini fuciniane.

Il noto meridionalista così rievocò l'episodio nella Prefazione a Napoli a occhio nudo: "Ricordo con affettuoso compiacimento il tempo, che Renato Fucini trascorse meco in Napoli. Un giorno mi comparve in casa con una lettera del Villari, per chiedermi di accompagnarlo nella visita, che, per consiglio del Villari stesso, si proponeva di fare alla Napoli dolorosa, la Napoli del popolo oppressa dalla miseria" (p. V). Molto interessanti, nella stessa Prefazione, la dichiarazione del comune proposito di aderire assolutamente al 'vero' e la confessione del comune accoramento di fronte alla tristezza dei luoghi visitati della città: "Poco ci volle a farci diventare amici, anzi a stringerci in cordiale intimità, dappoiché tutti e due fossimo desiderosi di conoscere, di valutare, di dir le cose senza alcuna alterazione o lusinga. Per un mese, se non più, fummo insieme ogni mattina, visitando i quartieri più poveri e i 'fondaci' di esecrata memoria, 'basso porto', gli ospedali, i tribunali, le carceri, il cimitero delle trecentosessantacinque fosse carnaie non anche allora abolito: e che discorsi, da un luogo all'altro, quante imprecazioni e quante speranze!" (p. V). Era proprio del Fucini, invece, il bisogno di "vedere e sentire" le bellezze dei dintorni: "Poi visto e sentito tutto il lacrimevole male della città, egli volle veder pure e sentire tutta la incomparibile bellezza del golfo..." (p. V). Di qui la lineare e chiara conclusione del Fortunato sull'opera nata dalla "duplice peregrinazione" (una vera e propria chiave di lettura da molti in séguito, purtroppo, dimenticata): "Dalla duplice peregrinazione veniva fuori, poco dopo, quel gioiello di libro (l'edizione ne fu presto esaurita), che ebbe nome Napoli a occhio nudo" (pp. V-VI).

L'immediata fortuna del libro era il segno del grande interesse suscitato fra i contemporanei. Esso, infatti, si presentava agile, snello, immediato, come un reportage deve essere, con quel tanto di passione o romantica o, forse, deamicisiana, che permettesse di far presa sulle semplici pretese di un vasto pubblico, ma già rivelante una chiara personalità creatrice (vuoi attraverso qualche sicura zampata macchiaiola, vuoi attraverso il tono, o partecipato risentito o ironico, che alterava ogni tanto la scientificità del racconto).

I lettori poterono, con l'Autore, visitare una città tra spagnola e orientale, sudicia, rumorosa, fatta di edifici non belli o di indescrivibili quartieri di poveri o di luoghi sconcertanti come il Camposanto vecchio; abitata da una popolazione, con riferimento all' "ultima plebe" (p. 26) che è maggioranza, "anguilliforme" (p. 26), dal carattere indecifrabile e contraddittorio, che vigliaccamente non lavora, che si arrangia dando fastidio, o con la frode, o rubando, che non ha sentimento della dignità umana, che è disposta ad umiliarsi indecorosamente, che ha poche virtù tra tanti difetti, e che ha "molte altre qualità che non voglio rammentare, sebbene appaiano buone, perché figlie troppo spontanee di quel fango morale in cui sono tenute sommerse queste misere scimmie a due mani" (p.37); resa, tuttavia, anche pittoresca da certe peculiarità come l'esprimersi a gesti o da certi usi e costumi o da certi mestieri come quello del petulante ciabattino, dell'elegante e lamentoso maruzzaro dalle "due esistenze", dei rozzi cantastorie.

E poterono, con il medesimo Autore che dichiarava di voler dire la verità (12), nonostante qualche prevenzione (13), e che usava ironia anche per le persone "per bene'' (14), farsi un concetto di quegli abitanti schiavi moralmente per una mala politica dei Borboni (15), i quali avevano costruito e mantenuto la loro arretratezza (16); e temere che una Napoli così diversa (17) costituisse un pericolo di contagio per l'Italia intera (18).

La lettura di Napoli a occhio nudo, come si vede, permetteva di vedere, di conoscere, di capire, ma era anche eccitante, anche preoccupante. Forse era anche rassicurante, per una parte d'Italia che di tanti mali si vedeva e riconosceva priva.

La Lettera III, "Dove si parla di Sorrento di Amalfi e di Pompei", e dove si parla, particolarmente, anche di Castellammare di Stabia e della strada che da questa porta a Sorrento, acquista una sicura rilevanza ai fini della interpretazione dell'opera, sia per la convergenza e l'intreccio in essa di quella "duplice peregrinazione" di cui parlava Giustino Fortunato, sia per il particolare atteggiamento dell'autore nei confronti della duplice realtà.

La lettera sarebbe stata scritta a Napoli il giorno 11 maggio 1877 (questa è la data indicata all'inizio di essa) e si riferisce al viaggio per Sorrento e Pompei che sarebbe avvenuto il giorno prima, come si deduce dalle indicazioni scritte dall'autore stesso, al suo arrivo a Sorrento (19). E potremmo credere a Fucini se successivamente non avesse aggiunto che era domenica (20). La perplessità consiste nel fatto che il 10 maggio 1877 era giovedì e non domenica e che, d'altra parte, Fucini sembra e vuole apparire preciso nel riportare le date, oltre che i fatti. Ma forse le date indicate saranno state giustapposte a quelle vere, che del resto dovevano essere di poco diverse, per la necessità di modificare l'ordine dei fatti, nella nuova organizzazione della narrazione, rispetto a quello esatto e reale del suo taccuino di viaggio. Tuttavia è singolare il fatto che un caso analogo si verifica anche nella Lettera VI, a proposito della visita al Camposanto vecchio, dove si parla di "venerdì" invece che di martedì 22 maggio con uguale differenza di tre giorni: poiché nel successivo mese di giugno l877 il giorno 10 cadeva effettivamente di domenica così come il 22 cadeva di venerdì, si potrebbe anche ipotizzare che il viaggio avvenne nel giugno e non nel maggio 1877, oppure che le date del taccuino siano state adattate a quelle corrispondenti del mese di giugno per qualche banale o per noi impensabile motivo.

Fucini non fu solo durante il percorso, ma con tre compagni il cui nome non è indicato per esteso, o non è affatto indicato, sicché non possiamo identificarli facilmente:

il pittore S. di Firenze, il B. di Bologna, anche egli pittore, e la sua signora; una bella figlia della animosa Romagna, i cui occhi bruni e lucenti stavano su quel viso ridente come due tormaline nere incassate in un cristallo di quarzo roseo (p. 53).

Furono, comunque, compagni davvero piacevoli:

Chiassoni, allegri e spensierati come me, pieni di voglia di godere, e capaci di intendere tutto il linguaggio di quella natura divina. Migliori compagni non avrei potuto desiderare (pp. 53-54),

tanto più che

erano allo stesso grado d'entusiasmo, se no, avrebbero riso delle mie smanie (p. 52).

E davvero Fucini era fuori di sé per lo spettacolo che si sarebbe offerto ai suoi occhi. Così inizia la Lettera III:

...No, amico mio. Chi ti ha detto che è possibile, o non ha mai veduto questo paese, o t'ha ingannato. Napoli con i suoi dintorni è l'unica terra d'Italia, io credo, che non ha delusioni anche pel viaggiatore che ci càpiti inebriato, dopo averne sentito parlare da un pezzo! La descrizione più pittoresca; il quadro di un pennello prodigioso; il capitolo d'una penna sublime, impallidiscono davanti alla realtà. è così grande questa bellezza, e tanti elementi vi concorrono che occhi e cervello umano non possono esser capaci di afferrarla intera, non che di descriverla.

Sorprende come lo stesso scrittore che vediamo assumere le posizioni 'scientifiche' del naturalismo quando si addentra nei quartieri 'dolorosi' di Napoli, aquisti invece un tono decisamente anti-naturalistico al cospetto della bellezza del paesaggio. La dichiarata ineffabilità diventa il segno di una sensibilità del tutto particolare per la bellezza della natura e del paesaggio, 'moderna', se si vuole, per quel che di intimistico può nascondere, o per quel che di aristocratico può rivelare nel momento in cui il bello viene anteposto al morale, ma anche in qualche modo 'antica' per la ostentata incapacità, di sapore neoclassico o preromantico, di afferrare tutto il senso della bellezza e per il porsi di fronte alla eterna e smisurata natura in una posizione di piccolezza e di inferiorità che porta alla tristezza. Ecco come la lettera continua:

La più pittoresca descrizione che un uomo possa farne, la ebbi l'altro giorno dalla bocca di un modesto fraticello di Camaldoli. - Vedete, signore, - mi disse - son cinquant'anni che tutte le mattine vengo su questa terrazza a dare un'occhiata al Golfo, e tutte le mattine lo guardo e mi rattrista come se non l'avessi veduto mai (pp. 51-52).

Il viaggio avviene in treno fino a Castellammare e si rivela entusiasmante oltre ogni misura agli occhi di Fucini:

Che festa incantevole! che dovizia di colori e di luce! che sterminato sorriso di natura è questo! (p. 52).

La gioia e la meraviglia non vengono affatto nascoste durante la descrizione:

Il treno strisciando turbinoso per la pianura allargava i polmoni ad un lungo sibilo che pareva d'allegrezza, attraversando le polverose borgate tanto fitte tra Napoli e Torre del Greco, da sembrare una continuazione della vecchia città. - E noi si guardava meravigliati. Da una parte il Vesuvio che taciturno fumava la sua vecchia pipa, e sopra a' suoi fianchi gli sterminati campi di lava che a distanza sembrano, in mezzo al verde smagliante della campagna che li contorna, ombre immobili portate da grosse nubi; giù nella valle affondate in un soffice tappeto di verdura, centinaia di casette rurali o solitarie o raggruppate intorno a goffe chiesuole alle quali mancavano soltanto i minareti, per farci aspettare da un momento all'altro che la voce del Muezzin si alzasse misteriosa dalle loro cime, per chiamare i fedeli alla preghiera [...]. Ritirando lo sguardo da questa scena secca e abbrustolita, compariva dall'altro lato il mare biancheggiante di spuma e di vele, e in lontananza i villaggi di Vico, Mèta, Sant'Aniello e Sorrento, tuffati fra i boschetti d'aranci e candidi come gruppi di piume che potevan credersi quelle cadute dalle ali degli Angeli, quando scesero ad amoreggiare colle figlie della Terra; e poi Capri coi suoi precipitosi fianchi di levante, e Ischia e Procida e la nebulosa Ponza, dietro alla quale la dubbia caligine del mare lontano diceva agli occhi insaziabili: ora basta (pp. 52-53).

Ed eccoli a Castellammare di Stabia. Esattamente un anno prima, l'8 maggio 1876, era stata varata in questa città la corazzata "Duilio", vanto dell'ingegneria navale italiana e delle maestranze dei cantieri navali stabiesi, oggetto di discussione in tutto il mondo per la rivoluzionaria progettazione, simbolo delle generali attese di un'Italia finalmente forte in Europa e sul mare a riscatto di umiliazioni subìte e di un non riconosciuto ruolo internazionale. Per tutti questi motivi, Fucini definisce e presenta innanzitutto così la città:

Arrivammo a Castellammare, la patria dei più arditi navigatori di queste coste, del superbo Duilio e dei più abili costruttori navali d'Italia (p. 54).

Subito dopo, però, il fugace e indiretto riferimento alla grandezza e alla popolosità, problematiche, eccessive per un centro che ci si aspetterebbe tranquillo e silenzioso:

È questa città un pezzo di Napoli portato in quella cala e nulla più (p. 54).

E contemporaneamente l'elogio per la sua posizione:

ma le montagne che le stanno a ridosso e il panorama del Golfo che si gode di là, è stupendo (p. 54).

 

 

Son qui accennate e indicate in maniera lapidaria le caratteristiche di Castellammare; se si vuole, ne è individuato il problema. Nello stesso tempo è anticipata la caratteristica della narrazione successiva, che corre su un duplice binario: quello naturalistico, interessato, sia pure in una maniera tutta particolare e 'personale', all'ambiente umano e di colore, e che trova corpo nel curioso episodio capitato al Fucini e nella partecipata indicazione di certi caratteri stabiesi, e quello romanticheggiante, che trova sfogo nella descrizione della strada che porta da Castellammare a Sorrento. Come si diceva, si trovano qui a stretto contatto e intrecciate quelle che sono le due anime dell'opera; a Castellammare convergono le due peregrinazioni del Fucini, delle quali Giustino Fortunato, come si sa, parla nella Prefazione al libro: quella nella "Napoli dolorosa, le Napoli del popolo oppresso dalla miseria" e quella nella "incomparabile bellezza del golfo" (p. V).

Ecco come è narrato l'episodio dell'arrivo a Castellammare:

Conservo uno spiacevole ricordo di quell'arrivo. Appena che fummo scesi dal treno ed assaltati da uno sciame di ciceroni, ciucai, vetturini, accattoni et coetera animalia, m'accorsi di non aver più addosso il portafogli. Non volevo mettere gli amici a parte del mio disturbo, ma non avendo potuto nasconder loro l'imbarazzo, nel quale mi trovavo e l'alterazione della mia faccia, mi domandarono con premura che cosa avessi. - Mi hanno rubato il portafogli! - Ma come! ma dove? ma quando? - Ora, ora nel momento; due minuti fa l'ho tirato fuori per dare qualche cosa a quel vecchio... - E ci avevi molto? - Ci avevo tutto. - Ma ti sei cercato bene addosso? - Ho frugato da per tutto e non l'ho più. Guardate: qui, niente; qua, nemmeno... non l'ho, non l'ho più assolutamente. Addio, amici; proseguite pure per Sorrento; io torno indietro; divertitevi e compatitemi se... - Uno scoppio di risa sonore interruppe le mie parole d'addio. Domandai alquanto indispettito il perché di quel riso e mi risposero con una risata più grossa della prima. E perché quelle risa così crudelmente inopportune? Il portafogli che cercavo con tanto affanno l'avevo in mano (pp. 54-55).

 

 

Sembrerebbe che alla fine prevalga la comicità sulla spiacevolezza della situazione, ma Fucini ci aveva avvertiti di conservare "uno spiacevole ricordo dell'arrivo". Il tono è serio, il racconto è partecipato. La "visita [... ] alla Napoli dolorosa, la Napoli del popolo oppresso dalla miseria", per ripetere ancòra una volta l'espressione di Giustino Fortunato nella Prefazione (p. V), ora non riesce a nascondere le prevenzioni del Fucini, il distacco verso atteggiamenti che non si comprendono e che si colgono soltanto nel loro aspetto fastidioso e, come poi si leggerà, "nauseante" (p. 55). O forse non è assoluta prevenzione per il Sud o per Napoli (21), ma l'insofferenza, il fastidio per certe insopportabili usanze che potevano accomunare Castellammare sia con l'ex capitale sia con altri luoghi come Sorrento (22). Si veda, a confronto, come il Fucini rievoca più avanti nella stessa lettera l'arrivo ad Amalfi: "Arrivammo ad Amalfi. L'arrivo d'una carrozza in quel remoto cantuccio della terra è un mezzo avvenimento. Tutti si affollano intorno ai nuovi arrivati; li guardano, li osservano, ma stando però a distanza e mantenendo un contegno semplice e rispettoso; vi si offrono per servigi, vi esibiscono indirizzi di locande, vi domandano notizie del paese dal quale venite e se volete cavalcare per visitare i dintorni, ma tutto con garbatezza di modi, con un sorriso onesto su la faccia, e ... inarcate le ciglia, amici miei, non vi chiedono l'elemosina! Crediate pure che nel trovare, uscendo di Napoli, un paese dove non ci chiedono l'elemosina, c'è da sentirsi venire un accidente dalla consolazione. 'Signurì, u soldo' Dio eternamente misericordioso!" (p. 63). Si veda anche ciò che di positivo egli dice di Capri in tutte la Lettera VII.

Ma c'è, nel racconto dell'arrivo a Castellammare, anche qualcosa di particolare e di interessante per altri aspetti, che un po' sorprende il lettore. C'è, in questa occasione, l'umiliazione per aver avuto torto nell'aver dubitato di quegli umili stabiesi. C'è la consapevolezza di aver offeso degli uomini, sia pure assillanti o accattoni o cetera animalia. C'è il rimorso, degno del più autentico fra i cristiani, di chi vede il Cristo nel volto del fratello offeso:

Dileguata la breve ma rabbiosa tempesta, mi scusai ad alta voce con gli amici d'aver loro procurato quel disturbo, e nell'animo mio chiesi scusa anche ai ciucai, vetturini, ciceroni e accattoni castellammaresi, dei gravi dubbi che per dieci minuti avevo avuto sulla loro onestà, e proseguii il cammino lungo la marina tutto umiliato, parendomi di scorgere in ogni occhio languido che mi fissava, il dolce rimprovero di Cristo a Pietro: Amice, quare dubitasti? Per questa volta avevo avuto torto (p. 55).

Ma il "per questa volta avevo avuto torto" suona freddo e duro e ci rivela la rigidezza di un Fucini ancòra ostinato, nonostante tutto, nel suo risentimento o nel suo pregiudizio.

Poi, una pausa della narrazione con il riferimento al tempo e la descrizione 'macchiaiola' del cielo percorso da nuvole che mitigano il già cocente sole di maggio:

La giornata non era riuscita degna della fama di questo cielo, ma considerato che la monotonia finisce con lo stancare, anche se del genere migliore, non ci dispiacque punto che certi bianchi farfalloni di nebbia, volando celeri per l'aria come cigni giganteschi, ci riparassero, di quando in quando, dalle carezze un po' troppo calde d'un sole, che mezz'ora fa aveva arrostito le palme di Siria (p. 55).

Ma l'assillo dello "sciame di ciceroni, ciucai, vetturini, accattoni" si fa sentire a tal punto che coglie lo scrittore con ancòra l'immagine delle nuvole nella mente e sul foglio:

Ma altri nuvoli un po' troppo compatti e forse troppo terrestri, ci facevan pagar caro il benefizio di quelli aerei (p. 55).

Fucini riprende pertanto il tono duro di prima, non sentendosi disposto a sopportare i "parassiti ambulanti", che tuttavia lo perseguitano:

Il nuvolo dei parassiti ambulanti che ci ronzavano d'intorno, pigolando vigliaccamente l'eterno soldo, era anche troppo nauseante; e siccome tra questi brillava molestissimamente l'ottava piaga del genere umano, voglio dire un vetturino che non si chetava mai, mai alla lettera, di offrirci i suoi disinteressati servigi, e che ci avrebbe seguiti indubitatamente fino a Sorrento, invitandoci nella sua vettura, se ci fosse piaciuto di far la gita a piedi, insaccammo finalmente nella sua carrozza che, del resto, era comoda e bella, e ci mettemmo in cammino per la desiderata Sorrento (pp. 55-56).

 

 

Più avanti, però, si leggerà come lo sfortunato Fucini anche a Sorrento non se la caverà facilmente e il suo ricordo della città non sarà, sotto questo aspetto, piacevole.

Ma riprendiamo il racconto, che si preannuncia interessante per il diverso tono con cui Fucini si accinge a parlare della bellissima strada che da Castellammare porta a Sorrento:

Attraversato rapidamente il breve piano della marina di Castellammare, incomincia subito lo stupendo tratto di strada incassato fra dirupate scogliere. Questa via per me è quella che contribuisce essenzialmente alla grandissima e giustificata fama delle bellezze di Sorrento, il quale di per sé stesso altro non è che una meschina e sparpagliata cittaduzza che, abbordata dalla via di mare, piuttosto che soddisfare al desiderio del visitatore, mostrando una bellezza sorridente, gentile ed intonata col grato effluvio de' suoi cedri fioriti, presenta invece l'aspetto d'un castello da burattini, collocato in cima a un rozzo muraglione ciclopico. Il Sorrento dei poeti non è Sorrento, ma la strada che conduce a Sorrento. E questa strada è meravigliosa (p. 56).

Ecco che, nel descrivere le meraviglie di questa strada, Fucini ci invita all'altra sua peregrinazione nelle bellezze della natura. Dapprima, il sorprendente paesaggio, ore orrido, ora grazioso, ora fantastico, sembra emergere dai versi del Tasso o dell'Ariosto, da tele di sapore arcadico, o di sapore romantico; testimonia, insomma, il fascino che le bellezze della natura esercitano sullo scrittore, sotto tutti gli aspetti e le forme, si direbbe in tutta la loro storia:

è un succedersi continuo di punti di vista uno più stupendo dell'altro. Dopo aver attraversato un tratto di via di un orrido pittoresco, irto di scogliere maestose e di precipizi, in un momento ci troviamo in fondo a graziose vallicelle, in una specie di giardini d'Armida, sparse di ameni casolari rimpiattati fra boschetti di cedri giganteschi, sopra i quali passando la brezza del mare c'investe e ci ricrea con un'onda di profumo e ci ricopre con una pioggia di petali bianchi. È una scena delle più fantastiche, è un idillio soave della Natura cantato dalla voce del vento (p. 56).

 

 

Poi, nella bellissima descrizione della vegetazione, i toni, che in parte son quelli del vedutismo d'oltralpe, son sùbito assorbiti nel gusto 'macchiaiolo' dello scrittore:

La madreselva e il glicine flessuosi, attorcigliandosi alle cancellate dei giardini, s'inerpicano di balcone in balcone e correndo lungo le facciate delle case, vanno a nasconderle sotto una coltre di verdura e di fiori; agave colossali, fichi d'india, palme, carrubbi; e olivi dalla foglia scura come quella dei lecci, ed ai quali l'acqua del mare bagna di spuma i tronchi sottili, slanciano le loro braccia in aria e si affollano sull'orlo dei dirupi, sollevando le loro chiome uno al disopra dell'altro, come se anch'essi volessero bearsi nella vista del mare e del paese divino che li circonda (p. 57).

 

 

La beatitudine del letterato è al culmine:

Che sogno fantastico, che gioia nell'anima era quella! Io me la bevvi a larghi sorsi e mi trovai completamente beato, ripetendomi l'ottava dell'Ariosto: Vaghi boschetti di soavi allori / Di palme e d'amenissime mortelle, / Cedri ed aranci ch'avean frutti e fiori / Contesti in varie forme e tutte belle, / Facean riparo ai fervidi calori / De' giorni estivi con lor spesse ombrelle;/ E tra que' rami, con securi voli, / Cantando se ne giano i rosignoli. I rosignoli mancavano; il resto c'era tutto (p. 57).

Poi, 1' "estasi contemplativa" con la brevissima parentesi dei gruppetti di ragazzi che invitavano ad ammirare il paesaggio:

A quando a quando s'incontrano gruppi festosi di giovanetti che vi salutano strillando e gesticolando, invitandovi quasi istintivamente coi loro u bì! u bì! (guardate! guardate!) a contemplare la scena incantevole che vi sta davanti. Pare che tutto brilli, che tutto si muova, che tutto intoni una dolcissima armonia intorno a noi; pare che il cielo e la terra siano impazzati e che sorridano delle nostre facce melense perdute in un oceano di estasi contemplativa (pp. 57-58).

Merita considerazione anche quel che segue, per il giudizio espresso sugli abitanti delle 'borgate' incontrate lungo il percorso, giudizio che sembra riproporre, a distanza di oltre sessant'anni, l'immagine degli insensibili ottentoti usata dal Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo:

A brevi intervalli, una borgata piena di bighelloni inconsci del privilegio loro dato dalla nature, avendoli fatti nascere sotto questo cielo meraviglioso, anima il paese tranquillo che si percorre (p. 58).

Ormai, il tono cambia di nuovo per afferrare - sia pure con il dubbio di essere stato sfortunato negli incontri, ma con la certezza 'naturalistica' o 'scientifica' di riferire esattamente il visto - il 'diverso' e lo 'strano' di una realtà così dicotomica, nella quale l'uomo è visto in uno strano conflitto con la natura in cui vive, tanto da non trovare un suo posto nella generale armonia della "beata regione":

Tutto è intonato in questa beata regione: il cielo, il mare e la terra rivaleggiano di splendore, di luce e di vita; l'uomo solo rimane inferiore in questa artistica gara e quanto al di sotto! Sarò stato sfortunato ne' miei incontri, ma quello che dico è precisamente quello che ho visto, senza coda né amputazioni. Le donne della campagna, specialmente, sono addirittura brutte, e Dio sa se queste delusione è dolorosa, quando non si dubita neanche per ombra che la natura non abbia voluto fare compiuta quaggiù la sua opera, popolando di angeli questa regione divina. Dio, che angeli decaduti! Sono brutti i loro visi, ma più brutti poi se li riducono, perché avendo il costume di tenere in testa una pezzuola che contorna loro la fronte fermandola con un nodo alla nuca, sono costrette dai raggi cocenti di un sole mezzo affricano a tener gli occhi bassi ed accigliati, ed a guardare di sotto in su in un modo che dà alla loro espressione qualche cosa di bestiale e di feroce. Ah! une bella figlia degli uomini l'avrei incontrata con tanto entusiasmo in mezzo ad una selva d'aranci! ma non ebbi l'onesta soddisfazione. Gli uomini sono emaciati (quelli che ho visto io, veh! perché il caso potrebbe avermi fatto vedere lucciole per lanterne), pallidi e di forme così grossolane, che tutt'ora mi rimane il dubbio d'essermi ingannato, perché mi pare impossibile tale anomalia in mezzo alla vita sana e gentile che spira da ogni foglia, da ogni sasso di questo paese benedetto (pp. 58-59).

Nasce a questo punto l'ampia digressione su Amalfi. "In mezzo allo splendore dei colli di Sorrento" (p. 59), con una improvvisa esclamazione - "Oh! Amalfi, Amalfi!" (p. 59) - che crea curiosità e interesse tra i compagni di viaggio, lo scrittore Fucini riesce a introdurre il discorso sulle ancor più straordinarie bellezze della 'abbagliante' costiera amalfitana e del centro che le dà il nome, da lui visitate in una precedente occasione: un vero Paradiso - "Il giorno del giudizio, per gli Amalfitani che andranno in Paradiso, sarà un giorno come tutti gli altri" (p. 61) - abitato da gente, questa volta, bella e forte e soprattutto rispettosa, come già sappiamo.

Intanto i quattro viaggiatori sono giunti a Sorrento, dove, come si è detto, si ripropone il problema degli 'accattoni' e dove altre delusioni attendono il Fucini, che, rielaborando sulla pagina i suoi ricordi e le sue impressioni, manda a questa famosa cittadina un saluto davvero singolare:

Ti saluto, o graziosa Sorrento; ti saluto, o patria, per caso, del sublime e languido cantore degli amori di Olindo e Sofronia; e ti saluto, o patria degli accattoni più petulanti che si battezzino tra i quattordici milioni d'analfabeti del regno beato! (p. 65).

Arrivato a Sorrento, ha appena il tempo di scendere dalla carrozza e di segnare sul suo taccuino l'appunto sul giorno e sull'ora d'arrivo, quand'ecco che si fa avanti lo scocciatore, nei cui confronti il 'prevenuto' Fucini non riesce ad esser 'tenero':

Scendendo dalla carrozza segnai sul mio taccuino: arrivato a Sorrento il dì 10 maggio 1877 a ore 11 antimeridiane precise. Mentre scrivevo, mi si accostò una faccia torbida domandandomi: - Eccellenza, state scrivendo le vostre memorie? - (Cominciò di lì per chiedermi u soldo). - Sì, - gli risposi - e tu le tue prigioni quando le scriverai? - Ah! eccellenza, nun saccio a scrittura'. E questa risposta me la fece con tanto abbandono, con tale intrigliatura delle pupille che mi avrebbe fatto tenerezza, se accompagnato da un suono speciale del suo rimpianto non avessi visto un lampo della sua anima falsarla schizzargli un palmo fuori degli occhi (pp. 65-66).

Inizia la visita ai luoghi "bellissimi", ma non manca qualche delusione:

Scendemmo alla marina, visitammo i giardini e i più prossimi dintorni del paese tutti bellissimi, e dopo andammo ad ammirare l'abitazione che fu della Imperatrice di Russia. Che vi trovammo da ammirare? Mah! Quattro mura che son celebri, perché vi ha alloggiato una Imperatrice, la quale è celebre, perché è Imperatrice! (p. 66).

Ciò che segue mostra più chiaramente l'ironico atteggiamento del Fucini nei confronti dei non 'galantuomini':

Ah! signorino, - mi diceva una donnicciuola, - che gran signora era quella! Quando le si offriva un mazzo di fiori ci diceva grazie, e ci guardava ridendo. - Corpo di settantamila cosacchi, non mi burlate! - Davvero, signorino, - e mi presentò una rosa. Povere creature! abituati a non vedersi guardare altro che in cagnesco da tutti quelli che essi chiamano li galantuomini, non rammentano le elemosine della danarosa Czarina; rammentano invece i suoi 'grazie' e i suoi umani sorrisi (p. 66).

 

 

Successivamente l'atteggiamento si muta in ira non del tutto nascosta:

Il nostro cicerone che non mancava mai di levarsi il cappello e di eccellenzarci ogni volta che ci volgeva la parola, pretendeva d'esser tanto pratico nel riconoscere di che provincia erano gl'Italiani che gli capitavano sosto, che non sbagliava mai. Allora io lo invitai a dirmi di dove credeva che fossi. - Piemontese, - mi rispose subito. - No. - Lombardo. - Nemmeno. - Romagnolo. Neanche. - Veneziano. - Meno che mai. - Stette un po' a pensare e non gli venendo detto altro, gli dissi che ero toscano; e deridendo la sua presunzione, gli domandai come mai non mi aveva riconosciuto per tale. Mi rispose: - Eccellenza, non avete bestemmiato il nome d'Iddio e non m'avete detto figlio d'un cane. - Oh! - Mandando in burla la cosa, risposi che non gli avevo desto niente di tutto questo perché non me ne aveva presentata l'occasione; ma il viso mi deve esser diventato rossiccio, quando pensai alla gentilezza della mia Toscana così ingenuamente confutata da un cicerone di Sorrento (pp. 66-67).

 

 

Tra simili 'popolani' diventa impossibile ricercare ricordi e tradizioni dell'amatissimo Tasso:

Cercai ricordi e tradizioni del Tasso, ma non mi fu possibile trovarne traccia. Nessuno di quei popolani seppe rispondermi quando rammentai quel nome; nessuno canta le sue ottave, e ne fui meravigliato ricordandomi che i navicellai del mio piccolo Arno le cantano innamorati, rompendo la magra corrente, e i contadini delle mie solitarie campagne le intonano a gola spiegata, facendo la foglia su la cima dei pioppi. Il nemo propheta in patria sua a nessuno è meglio applicabile che all'infelice poeta (p. 67).

Sul Tasso il Fucini non transige e non è disposto a tollerare ulteriormente la "tanta stupidaggine" del cicerone:

Il cicerone stesso, che dopo i dottissimi del luogo poteva esser creduto il più dotto, almeno per ciò che riguarda le memorie storiche del paese che illustra co' suoi spropositi, conducendomi verso la casa del Tasso mi disse che avrei visto poco, e che la fabbrica era stata da poco tempo rimodernata, inquantoché quel signore, del quale domandavo, era molto tempo che non ce stava chiù. Indispettito di tanta stupidaggine, lo trattai d'ignorante. Se n'ebbe per male e si allontanò ringhiando. Superbi, formidabili, feroci / Gli ultimi moti fur, l'ultime voci (pp. 67-68).

Poi è narrato il successivo e vano tentativo di imbarcarsi per Capri:

Principale scopo della nostra gita era l'isola di Capri, alla quale ci eravamo proposti di andare, imbarcandoci sul piccolo piroscafo che da Napoli fa le sue gite giornaliere toccando Sorrento. Ma il battello non venne. Era domenica, e la fede puritana degl'Inglesi che formano sempre la quasi totalità dei passeggeri per una tal gita, aveva impedito al capitano di trovarvi il suo tornaconto, facendola presso a poco a vuoto; onde se n'era rimasto nelle acque di Santa Lucia col suo puledrino acquatico, il quale, non dandogli biada, lascia strillare i regolamenti e l'orario, ma non si muove" (p. 68). Il Fucini propone allora di tornare indietro e di andare a Pompei. "Fu accolta con acclamazione la mia proposta, e dopo aver girellato qualche altro poco intorno a Sorrento, montammo sulla nostra vettura e partimmo per la morta città (p. 68).

Pompei sarà la realizzazione di "un altro de' [...] sogni più cari"; sarà più bella di ogni immaginazione; "più che una morta, sembrava un bella addormentata" (p. 69) al letterato Fucini che non disdegnava ricorrere alle immagini delle favole in una atmosfera così incantata. Dopo una breve visita alla città antica, i quattro viaggiatori si recheranno "alla prossima stazione della strada ferrata, dove una numerosa comitiva dei soliti pellegrini faceva un baccano diabolico" (p. 72). Ma sarà l'ultimo fastidio della giornata: "Dopo un quarto d'ora, durante il quale ci fu strappata malamente ogni poetica illusione, partimmo" (p. 72). A Napoli attendevano la visita dello scrittore i dolorosi quartieri dei poveri.

Castellammare e Sorrento il Fucini le rivedrà ancòra con tutti gli altri incantevoli luoghi del golfo, ma da lontano, dalla cima del Vesuvio, dove si recherà in gita notturna, come si legge nella Lettera VIII del 29 maggio 1877. In quella occasione, a quell'ora - era l'alba -, a quella distanza, non ci sarà nessun tipo di disturbo intorno a lui, si annullerà ogni minimo, fastidioso rumore, anzi sembrerà crearsi una magica, incantata atmosfera:

Ebbi un momento, nel quale tutto quello che mi contornava mi parve un sogno di febbre. Il mare, il cielo, la valle lontana, non sembrava opera della natura. Pareva il lavoro delicato d'una Fata gentile e veniva voglia di temere che l'aleggio d'un insetto lo potesse disfare, e si tratteneva il respiro, quasi temendo che anche l'alito più lieve potesse turbare quel diafano incanto (p. 172).

In quel momento di incanto, egli potrà completamente perdersi nelle bellezze del golfo e riempire il suo animo di malinconia:

Non credo a spettacolo più sublime. Quando dalla cime di un vulcano che freme, gettando la sua ombra sul mare, i nostri occhi hanno dinanzi il sole che sorge fra le criniere nevose degli Appennini, la baja di Castellammare, tutta la riviera di Sorrento fino al capo Campanella; e Capri e Ischia e Procida coi loro picchi tinti di rosa della prima luce del giorno; e la pianura e Napoli tuffata nelle onde, che stende al mare, come una Ninfa innamorata, le sue bianche braccia da Posillipo a Resina, la fantasia si smarrisce, l'animo si riempie di tanta malinconia, le forze nervose cadono in tale abbattimento, che di tanta folla di sensazioni altro ricordo non resta che confusione e dolcissima tristezza (p. 172).

Va notato come questa volta le non turbate bellezze naturali avvicineranno più completamente lo scrittore a questa parte d'Italia permettendogli di scoprire, ormai quasi alla fine del viaggio, anche l'anima napoletana. Questo egli vorrà aggiungere alle parole precedenti:

Il popolo solo ha scolpito le bellezze di questa sua Italia fatata, nella malinconia de' suoi canti (p. 172).

Per giunta, man mano la curiosità iniziale per la città strana si sarà trasformata in conoscenza, in amore. Sul punto di lasciare Napoli, come si legge nella Lettera IX, l'ultima, del 30 maggio 1877, dirà della città:

Chi non la conosce, amico mio, o quei diseredati che conoscendola non hanno gustato i vezzi di questa Circe, non possono intendere il cuore dell'amante ammaliato che, improvvisamente costretto, deve abbandonarla (p. 177).

I tristi addii finali, pronunciati sul piroscafo in partenza - una reminiscenza manzoniana adattata alla moderna civiltà delle macchine - saranno pieni di quest'amore. Uno di essi sarà anche per i luoghi toccati nella Lettera III:

Addio, poetici colli del Vomero, di Pompei e di Sorrento. Addio, placide marine del golfo, che lontane tornerete assidue, come sogni tristissimi e soavi, alla memoria ed al cuore dell'amico lontano: addio, addio! (p. 198).

L'ultimo sarà per Napoli:

Addio, addio a te dal profondo del cuore, o Napoli meravigliosa, addio! Io non ti ho certo adulata come tutti gli altri tuoi amanti, ma tu non volermene male, perché forse più di tutti gli altri ti amo (pp. 198-199).

 

 Post fata resurgo

 

NOTE

1) Vi fu una seconda edizione con prefazione di Giustino Fortunato nel 1913, per La Voce, cui seguirono altre, a intervalli più brevi. Noi citeremo dalla quinta edizione, stampata a Firenze nel 1930 per i tipi di R. Bemporard & F.

2) L'articolo apparve nel maggio 1871 (vol. XVII, pp. 130-135) col titolo Il poeta popolare.

3) Cento sonetti in vernacolo pisano, Firenze 1872. I Cinquanta nuovi sonetti appariranno nel 1879.

4) Sarà anche Ispettore scolastico, ma non vorrà mai accettare di fare il Provveditore agli Studi, nonostante varie sollecitazioni, preferendo esser comandato come bibliotecario a schedar libri presso la Biblioteca Riccardiana.

5) Le novelle lldegonda e La fuggitiva del Grossi lo commovevano fino al pianto. Per questi ed altri ricordi autobiografici cfr. le due raccolte postume Acqua passata (Firenze 1921) e Foglie al vento (Firenze 1922).

6) In Napoli a occhio nudo si citano Belli (p. 77), il Macheth e la Notte di Valpurga (p. 79), Dickens (p. 82).

7) "Colto, senza dottrina, in campi diversi, come agronomo, architetto, ispettore scolastico, bibliotecario" lo definì Guido Mazzoni (L'Ottocento, Milano, 1934, p. 1058).

8) Cfr. Vittorio Vettori, Renato Fucini, in (Aa. Vv.), Letteratura ltaliana. I Minori, vol. IV, Milano, 1974, p. 3040.

9) Cfr. G. De Rienzo, Narratori toscani dell'Ottocento, Torino, 1976, pp. 9-sgg.

10) Napoli, 1857-1868. A titolo di curiosità, in relazione all'area geografica presa in esame, si vuole qui ricordare che proprio a Firenze, nel 1842, era uscito il Cenno storico-descrittivo della città di Castellammare di Stabia di Catello Parisi. A Napoli Francesco Alvino aveva pubblicato, nello stesso 1842, La penisola di Sorrento e, nel 1845, il bellissimo Viaggio da Napoli a Castellammare, con quarantadue vedute incise all'acquaforte.

11) Si pensi soprattutto ai Vermi, del 1863, ed ai Misteri di Napoli, pubblicati in dispense dal 1869 al 1870 e in volume nel 1875.

12) "Sarò stato sfortunato ne' miei incontri, ma quello che dico è precisamente quello che ho visto, senza coda né amputazioni" si legge a p. 58. E a p. 83: "Non credere, amico mio, che ti racconti novelle". Si ricordi, inoltre, la testimonianza del Fortunato: "Dappoiché tutti e due fossimo desiderosi di conoscere, di valutare, di dir le cose senza alcuna alterazione o lusinga" (p. V).

13) "Guàrdati, m'era stato detto prima che venissi a Napoli, son luoghi pericolosi. Ed io mi guardai" (p. 78). Ma anche "Date Caesari quod Caesaris est" egli dice a p. 35, ricredendosi sulla sua "scismatica opinione" (p. 34) della inoperosità dei napoletani, avendone chiesto anche ad "alcuni direttori di stabilimenti manufatturieri, non napoletani e perciò non pregiudicati" (p. 34).

14) "Ah! quanto sangue è costata questa Italia alle canaglie perché se la godessero poi le persone per bene!" (p. 92).

15) Interessante senza dubbio l'analisi (pp. 44-46) con la conseguente appendice sulla camorra (pp. 46-47).

16) Cfr. quanto dice a proposito del taglio dei capelli al Crocifisso nella Chiesa del Carmine (p. 186).

17) "Di patria, d'Italia, di nazionalità non occorre parlarne. Essi sono napoletani e basta, ed il resto degl'Italiani, dal lato Nord son piemontesi, dal lato Sud cafoni e niente altro; ma del rimanente, neppure per il loro nido sentono nobile affezione, non hanno altre aspirazioni che il godimento tranquillo della miseria. Lasciateli svoltolarsi nel loro fango e date loro chiocciole e maccheroni a poco prezzo, non chiederanno mai qual forma di Governo regga il loro paese" (p. 43).

18) "Proposte di rimedi non te ne faccio per la grande ragione che non saprei farne. Soltanto mi contenterò d'osservare, e sempre in linea d'impressioni di viaggio, che nelle condizioni morali di questa plebe altro non m'è parso scorgere che una vergogna dell'umanità e un pericolo manifesto di espansione e di contagio per le altre province d'Italia" (p. 48).

l9) V. pp. 65-66. Più avanti, il brano sarà riportato.

20) V. p. 68, a proposito del non riuscito tentativo di imbarcarsi a Sorrento per Capri. Anche questo brano sarà riportato più avanti.

21) Si consideri l'analisi fatta nella Lettera II: "Da questa tendenza della loro indole [sc. dallo spirito d'indipendenza] e dalla scarsità di opifici che potrebbero accogliere quelli che stretti dalla necessita vi si adatterebbero, resulta quella enorme moltitudine di semioziosi, che si dànno al lavoro avventizio nei luoghi di maggior movimento commerciale o al piccolo commercio ambulante per le vie della città, tormentando il prossimo in centomila maniere dalla mattina alla sera" (p. 33).

22) Cfr. l'episodio del 'giovinotto' che giunge a leccargli le scarpe, così commentato dal Fucini: "Questa prostrazione morale, questo non senso del proprio decoro non appartiene soltanto agli ultimi straccioni, ma l'ho trovato anche più in su" (p. 41). Cfr. ancòra la descrizione del solechianielle, che "quando ha adocchiato la preda è implacabile" (p.180).

(Da "Cultura e Territorio", III-IV - 1986-1987 [1988], pp. 127-153)

(Fine)

Questo studio ora appare —riveduto, aggiornato, ampliato— nel volume edito nel 2006 a Castellammare di Stabia da Nicola Longobardi Editore

G. Centonze, Stabiana. Castellammare di Stabia e dintorni nella storia, nella letteratura, nell'arte

 

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